cap 29

Come sempre, un ruolo fondamentale di organizzazione e conforto fu svolto dai parroci. I quali però attribuirono la peste a un castigo divino per i peccati degli uomini e dettero la colpa a Masaniello e ai moti popolari di Napoli da lui ispirati.
Il parroco di Amalfi, don Lorenzo de Vivo, accettava di confessare ogni malato grave ma, a scopo precauzionale, accendeva prima un gran fuoco, poi faceva uscire di casa l’appestato e lo faceva restare dall’altra parte del fuoco. Lui poi, per ulteriore precauzione, si presentava vestito con un sacco intriso di aceto. Per dare la comunione all’appestato metteva l’ostia consacrata su una lunetta di cera, l’appoggiava alla punta di una lunga canna e gliela allungava attraverso il fuoco. I parenti chiedevano al parroco di ungere le parti del corpo dell’appestato con l’olio santo ma don Lorenzo si faceva autorizzare dall’arcivescovo a non ungere proprio tutto il corpo. Immergeva un batuffolo nell’olio, lo infilzava alla punta di una canna e con un’abilità degna di un equilibrista gli dava l’estrema unzione a distanza.
L’8 luglio sul retro della pagina 29 del “Liber Mortuorum” della sua diocesi, invece delle frasi di rito, Don Lorenzo scrisse una vera e propria cronaca di quanto stava avvenendo e concluse: «Et anchor che per gratia di N.S. e della B.ma Vergine e S. Andrea glorioso per insino ad hoggi io stia sano, con tutto ciò per questo tempo mi tengo sicuro… e sempre che per questa causa mi occorresse perdere la vita propria, lo riceveria a singolarissima gratia di N.S. non meritando io, miserissimo peccatore, ponere la vita mia per quell’anime per le quali Cristo benedetto ha sparso il sangue». Nonostante tutte le precauzioni, assistendo gli appestati, da vero e proprio eroe cristiano il povero don Lorenzo finì col morire pure lui, vittima del morbo, l’8 agosto 1656.
Anche l’allora parroco di Praiano, don Francesco Bolognino, continuò a comunicare e a somministrare l’estrema unzione: «a me confessus et communicatus… oleo sancto… sancta unctione refectus… o roboratus». Era preoccupatissimo. Quando uno in paese moriva «per il morbo di peste», nessuno voleva andare a prenderlo e portarlo al cimitero. I parenti erano costretti a seppellirlo «avante dta grotta de fuoro», «dietro la chiesa di Sto Giovanni», «nella piazza di suo marito sopa la via publica», «sotto la dta poteca che stà nella via publica», «nello cociniello di suo marito», «nelle case di sotto le sue robbe», «dentro lo pertuso dello petraro», «a mare sotto li monasteri». Quasi mai don Bolognino diede il consenso alla sepoltura in chiesa. Nel caso di qualche rara eccezione a scanso di equivoci annotò: «per non essere morto di morbo contagioso, ma per morte accidentale».
Don Bolognino a Praiano sopravvisse alla peste e per questo dopo il 30 ottobre 1656 ringraziò il Padreterno: «Laus Deo, et Beate Marie Santissmi Rosarij finis morbi contagiosi in hac terra. Bologninus Parocus qui à dicto morbo evasit». Morì dieci anni dopo, proprio nel giorno dei morti, il 2 novembre 1666 [29.1]. I fedeli furono certi che la coincidenza non fosse casuale, che il Signore avesse scelto il giorno dei morti per richiamare a sé quel suo servitore che tanti morenti aveva confortato nei giorni più drammatici.
L’altro parroco, quello di Vettica Maggiore, tremava per la paura o, forse, per i primi sintomi del contagio. Fatto sta che la sua grafia nel giro di poche settimane cominciò a tremolare.
Il parroco di Maiori contò prima duecento morti (scrisse «e sono 200»), poi trecento (esclamò: «Domine, non plus!»); a settembre arrivò a 845 «ob infectionis causam… propter morbum contagiosum».
Superato il peggio, i parroci non disdegnarono di gestire i lasciti dei morti appestati. Spesso versavano in deposito il danaro ricevuto, al netto delle spese per i funerali, e poi celebravano messe in memoria dei defunti con gli interessi sulle somme residue. Altre volte, andavano a incassare il credito che il morto appestato vantava nei confronti di compaesani debitori. Altre volte ancora, si facevano nominare esecutori testamentari.
A Ravello i morti per peste furono 923, ad Atrani 495 di cui 37 in un sol giorno, a Minori 344, a Vettica Minore 205, a Furore 203, a Pianillo 153, a Positano 23, ad Amalfi 85 sepolti presso la “porta vecchia” in un sito che ancora viene detto “Li Morti”. Porta vecchia era la cosiddetta Porta Cancello nel nord della città sulla vecchia Strada delle Cartiere.
A Vettica Maggiore ne morirono 41, un quarto di quelli di Praiano che furono 163, corrispondenti a una percentuale del 17÷18 percento degli abitanti. Nell’ipotesi di una diffusione uniforme del morbo, il calcolo porta a dire che la popolazione di Praiano nel Seicento fosse quattro volte quella di Vettica Maggiore, mentre oggi è quasi pari. Dunque, la frazione a mare si è sviluppata di più negli ultimi tre secoli.
Un ramo laterale della famiglia Gallo, discendente da Cola Gallo, fu probabilmente il primo in assoluto a essere colpito a Praiano. Infatti, venerdì 9 giugno del 1656 morì la quattordicenne Angela Gallo che «confessata da me don fran.co par.cho, ha riciuto il santismo viatico e fortificata cõ l’oglio santo…, è stata sepellita nella chiesa di s.to Luca cõ l’officio di honoranza… sospetta di morbo cõtagioso» [29.2]; il 21 giugno morì sua sorella diciassettenne Rosolina [29.3] che fu sepolta «dietro la chiesa di S.to Joanne alla parte di sopra». Questa Rosolina Gallo era soltanto omonima e più grandicella della omonima figlia di Minico, la quale oltretutto nel 1656 aveva dieci anni, non 17. Il giorno dopo morì la loro madre Disiata di 50 anni; il 28 giugno morì Sebastiano Gallo di anni 65 e fu seppellito «nella sua grotta sotto la sua casa» [29.4]. Il mese seguente, a luglio 1656, morirono quattro esponenti di un altro ramo laterale dei Gallo, in media uno a settimana: il 5 luglio morì Sabella [29.5] di 58 anni; il 9 luglio Chiara di 30 anni, originaria di Nerano, località a ovest di Positano; il 16 Dominico [29.6], di 21 anni, anch’egli di Nerano; il 28 Cesaro di 38 anni [29.7]. Il 20 agosto morì Allegretta Gallo [29.8] di 50 anni; il 22 Caterina [29.9] di 26 anni. Dunque si moriva a qualsiasi età.
Sabato santo 23 aprile 2011, nella sagrestia della parrocchia di S. Luca, mia moglie e io sfogliammo le pagine del «Registro de’ Defonti» dell’anno 1656; mi chiesi se quelle pagine fossero state mai aperte negli ultimi 355 anni. Mi venne il timore irrazionale che il batterio “Yersinia pestis” potesse rivitalizzarsi. Sapevo bene che era un timore sciocco, ma stetti comunque attento a non voltare le pagine inumidendo il dito con la saliva.
La gente di Praiano dopo quella terribile estate del 1656 non si perse d’animo, continuò a lavorare. Dopo poco, la natalità elevata compensò rapidamente le perdite subite.
Dei sette figli di Minico Gallo e Desiata Merolla, seguimmo con particolare interesse la storia di Nofrio e di Pietre Nicola.

About Riccardo Gallo
Riccardo Gallo (Roma, 23 settembre 1943) è un ingegnere, economista e docente italiano. Professore alla Sapienza, ha svolto compiti di risanamento del sistema produttivo italiano in ambiti governativi, finanziari, aziendali, riversando e incrociando le competenze acquisite. È stato definito il bastian contrario sia del management pubblico che del privatismo arrogante, estremista di centro. Ha collaborato con Il Sole 24 Ore. Oggi è opinionista de L’Espresso.
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