Nel 1656 si abbatté sul Regno delle Due Sicilie una peste terribile, venticinque anni dopo l’altra descritta per l’Italia settentrionale da Manzoni nei Promessi Sposi e nella Storia della colonna infame. Fu tanto devastante che tra il 1648 e il 1660 il numero di fuochi nel Mezzogiorno scese di oltre un quinto, passò da 500mila a 413mila. Napoli fu la più colpita, non tanto per la sua maggiore grandezza, quanto per la densità elevatissima, la promiscuità e la carenza di condizioni igieniche e di misure di prevenzione. In molte zone della città nel Seicento non si poteva camminare senza essere colpiti da sporcizia, d’altra parte né più né meno come l’emergenza rifiuti a Napoli a partire dal 2008. La plebe viveva in condizioni inimmaginabili. A Napoli e sobborghi, la popolazione scese di un terzo, passando da 280mila abitanti nel 1606 a 187mila nel 1688, perché oltre ai morti ci fu anche un fuggi fuggi di buona parte degli abitanti, ricchi e plebei, che scapparono dalla città infetta e cercarono rifugio sicuro nelle province.
Numerosi ciarlatani si spacciarono per guaritori in cambio di danaro o altri vantaggi. Dicevano di aver inventato antidoti efficaci, ottenuti lasciando macerare nel vino sostanze naturali (aglio, salvia, ruta, pepe, noce, ecc.), profumi, unguenti, fumi di mirra, incenso. Poiché a Roma la peste aveva risparmiato gli abitanti dei quartieri dove si faceva la concia delle pelli e dove perciò il fetore era insopportabile, i napoletani si lasciarono volentieri convincere che i cattivi odori fossero un rimedio efficace contro la peste. Da quel momento la sporcizia fetida a Napoli aumentò senza freni. Scrisse Dies «sebbene sia buono e comodo il sistema di praticare in ogni casa un foro da cui esce l’urina, bisogna dire che il cattivo odore che ne nasce dovrebbe essere in qualche modo cancellato. Ma dato che i napoletani credono sia un rimedio contro la peste, lasciano escrementi in tutti gli angoli dei cortili per non mandar via questo puzzo».
Finita l’epidemia, grazie a richiami governativi e agevolazioni varie, nella seconda metà del Seicento ripresero con maggiore intensità i flussi migratori dalle province verso la capitale.
Tutto questo per dire che il trasferimento a Napoli dei fratelli Gallo nel 1728 ebbe motivazioni diverse. Fu favorito da uno sviluppo di mercato, economico e fiscale nell’Arte della seta, ma si inserì in un esodo massiccio dalla provincia come coda finale dell’onda lunga demografica cominciata nella seconda metà del Seicento.
Anche Praiano nel 1656 fu colpita dalla peste. Raccontò Camera: «Al certo questo pestilenziale morbo portato da Sardegna sopra nave infetta e carica di soldatesche, fu il più terribile flagello, che avesse dopo 124 anni (1528-1656) giammai sofferto il reame di Napoli, in cui, la Capitale ne fu orbata di 400 mila e più abitanti! Nelle contrade di Puglia… ne furon desolate; e con esse molte altre terre del reame, siccome Avellino, Arienzo, Ariano, Sessa, Sangermano, Salerno, Cava ec. Immuni rimasero soltanto dal contagio tutti que’ luoghi che le precauzioni presero più efficaci, e con l’isolamento e con le contumacie».
Ad Amalfi ben due terzi degli abitanti furono colpiti dal morbo. Il parroco don Lorenzo de Vivo scrisse: «1656. In quest’anno circa la settimana delle Palme [16 aprile 1656] cominciò in Napoli la pestilenza, nella quale città ne sono morti molte migliaia di persone, che per adesso non serve più sapere il numero per non esservi commercio coi contorni d’Amalfi, cioè in Maiuri, che fu la prima a patire tal contagio, e poi Praiano, appresso a Minori Ravello e Vettica Minore, ma in particolare Minori è quasi tutta estinta come Vettica Minore, Maiori e Ravello, la maggior parte Scala, una buona parte maretima verso sopra allo Furore ne sono morti assai, infine non è luogo di questa costa che non sia stato tocco». Il registro dei morti di Maiori riporta: «8 maggio Iacono Focazzi è morto con una glandola all’anguinaglia, mentre arriva da Napoli su una barca carica di pezze». Tutte le precauzioni furono inutili. Amalfi interruppe ogni comunicazione con Atrani. Scrisse ancora Camera: «Eguali espedienti presero anche gli altri paesi convicini. Non ostante ciò, Atrani, Conca, Scala, Ravello, Minori, Maiori e Tramonti ne furon più d’ogni altro desolati. Tra il disordine, lo spavento e la confusione, i soccorsi agli appestati vennero meno; in Atrani si portarono alla rinfusa a seppellire morti e moribondi!…».
Iniziata sulla costa a sud di Amalfi nella prima metà di aprile, la peste finì nella seconda metà di settembre, dopo cinque mesi e mezzo. A Praiano e a Vettica Maggiore arrivò due mesi dopo, a inizio giugno, quando alcuni appestati giunsero da Napoli. Una prova del fatto che tra Napoli e la costa amalfitana era migliore la comunicazione via mare rispetto a quella via terra è data dalla circostanza che uno dei portatori di peste diretto da Napoli a Vettica Maggiore, Luca Rispolo, il 15 giugno 1656 stava appunto su una imbarcazione, aveva costeggiato la penisola sorrentina e stava doppiando Punta Campanella , vicino Capri, per proseguire lungo Positano e arrivare alla Gavitella. Ma morì sulla barca a Punta Campanella. I marinai del posto se ne accorsero, non ci pensarono su due volte e lo buttarono in mare. Un altro che poco dopo fece la stessa fine fu un pescatore a Fornillo, vicino Positano: «cuius cadaver proiectus est in mare». Il 28 giugno morì il primo appestato di Positano. Il 15 luglio morì tale «Nicola Imperati oriundo di Aierola, venuto da Napoli due giorni prima». A luglio e agosto ci fu il massimo numero di morti.