La cerimonia [103.1][103.2] si svolse il 15 aprile 1903 nella chiesa di S. Maria de’ Vergini con un colpo di teatro. A sposarsi lo stesso giorno, alla stessa ora, furono due coppie: da un lato Enrico e Angelina, dall’altro Alfonso Nacciarone e Amalia Mola. Alfonso, affermato e facoltoso, aveva 44 anni, poco meno del doppio di Enrico, ardito venticinquenne forte solo della piccola liquidità riveniente dalla recente vendita del basso di S. Maria Antesaecula. Testimoni per entrambe le coppie furono i fratelli Mola, Luigino il comandante di Marina e Giulio il brillante avvocato grande orchestratore. Il registro della Parrocchia era ancora quello dell’Ottocento, era arrivato a pagina 791 e c’erano ancora pagine da riempire. Il parroco Francesco Donati rinviò l’apertura di un libro nuovo e ricalcò a mano un 9 sull’8 del prestampato 180… e aggiunse un 3 finale: 1903.
In una firma del 1904 [103.3], come sempre analizzata dalla grafologa, Enrico Gallo ventiseienne «è combattivo, decisionista, idealista, intelligenza rapida, a volte arrogante, votato per il comando, altruista». Nei salotti era brillante, polemista, veniva definito «mordace» e lui se ne compiaceva. Pur non avendo fatto studi universitari, con l’aggettivo «mordace» Enrico rifletteva bene i caratteri culturali dell’epoca. Come ricordano Collina e Rovai, a fine Ottocento andavano di moda i trattati e i romanzi politici, filosofici e sociali, ma si affermò anche il «pamphlet, piccolo libro non rilegato, scritto satirico, mordace, violento, arma se la polemica è combattimento; puro veleno». Enrico Gallo era l’emblema del moderno pamphlet; parlava tagliente ma accattivante e sentiva che la sua personalità si affermava, incuteva soggezione negli interlocutori. Per lui era una rivalsa verso tante cose, ci si compiaceva e ne abusava un po’.
Nel mese di aprile del 1904 a Bologna, al settimo congresso socialista, sotto la spinta di un’alleanza tra gli “intransigenti” di Ferri e i “rivoluzionari” di Labriola, prevalse la sinistra del partito e fu indetto il primo sciopero nazionale della storia d’Italia. A quel punto Giolitti sciolse le Camere, indisse nuove elezioni e, con l’appoggio degli ambienti cattolici, provocò l’arretramento dei socialisti, da 33 a 29 seggi. Enrico votò per il partito dei Ministeriali. Non poteva fare diversamente, essendo oltretutto un orgoglioso ufficiale postale del regno d’Italia.
Nel 1905, sempre nel solco negativo del padre, Enrico chiese e ottenne un prestito privato di circa 3.700 lire dal sig. Giuseppe Filosa. È naturale che una coppia giovane si indebiti per raccogliere risorse finanziarie e costruire il futuro ma, per poter rimborsare il debito e sopportare gli interessi, devono esserci fondate speranze di reddito. Nel caso di Enrico, le prospettive del lavoro alle Poste erano piatte. Il costo del debito deprimeva il tenore di vita. Il raffronto con il fratello di Angelina, il brillante avvocato Giulio, e con Alfonso, l’anziano marito di Amalia, era irritante.
In un’altra firma del 1906, tre anni dopo il matrimonio, Enrico «si è addolcito, desiderio di affermazione, forte voglia di andare verso il futuro, ma timore di non farcela, lieve sentimento rinunciatario». Questa seconda firma fu apposta su una scrittura privata con la quale i Gallo, i Nacciarone, i Gaudiosi e Palazzi autorizzavano Giulio Mola ad ampliare «un camerino pensile posto esternamente alla cassa della scala comune» [103.4]. C’era chi vendeva e chi si allargava. Giulio Mola si allargava, era intraprendente.
Nei primi anni di matrimonio di Enrico e Angelina, la gelosia di Raffaela nel constatarne il tenero amore crebbe a dismisura. La vecchia aveva poco meno di settant’anni, aveva avuto molte gioie dalla vita, ma anche tanti dolori, non era una donna serena e, come spesso capita, con l’età divenne cattiva. A volte, nel cuore della notte, si faceva prendere da crisi nervose e si rifugiava nel letto dei due sposi, anche per intralciarne l’armonia amorosa. Raffaela era gelosa anche perché consapevole che i Mola erano di rango sociale non inferiore ai Masillo. Era arrogante e non veniva frenata da Angelina, che era dolce, mite, remissiva. Raffaela divenne una vera strega.
Nella mia ricerca partii dall’assunto, più o meno inconsciamente tramandatomi da Enrico, che le colpe della perdita di agiatezza erano state di Michele e che lui Enrico si era discostato dalla figura paterna. Invece, andando avanti nell’indagine, se da un lato certamente scoprivo differenze di personalità tra i due, nascenti da condizioni di partenza diversificate, dall’altro però trovavo similitudini nell’approccio alla vita e nella sorte.
Dopo l’ampliamento di cubatura realizzato da Giulio Mola sul lastrico, Maria Grazia e suo marito Nacciarone, nel frattempo tornati a Napoli, fecero altrettanto; Enrico si ripromise di ampliare anche lui uno stanzino «suppremo». A quel punto insorsero i Gaudiosi e i loro parenti Fiorentino, nuovi inquilini. Il 21 marzo 1906, come sempre capita, il contenzioso fu ricomposto con un accordo che consolidava l’esistente e impegnava i firmatari a rinunciare ad altri ampliamenti. Così a rimetterci fu Enrico che, per scarsità di mezzi, aveva tardato a fare il suo piccolo abuso.
Il 27 marzo 2012, in uno dei miei viaggi a Napoli, dopo essere stato nell’archivio della parrocchia di S. Maria de’ Vergini, tornai a S. Maria Antesaecula 112. A differenza della volta precedente, trovai sul cancello un giovanotto cortese, abitante in uno dei bassi interni al palazzo. Con cortesia mi fece entrare nel cortile, mi spiegò che quei bassi erano tutti destinati ad abitazioni, che lui era artigiano, ma il laboratorio purtroppo non ce l’aveva là. Chiesi: «laboratorio di cosa?». Rispose: «di pastori del presepe». «Ah, bravo!» feci io. A mia volta, gli illustrai che duecento anni prima, nel 1815, quei bassi erano utilizzati come rimessa di carrozza e stalla di cavalli. Spiegai pure che i piani erano tre, con un suppremo e un paio di stanzini sul lastrico. Poiché lo vidi perplesso e taciturno, caddi nell’errore tipico dei professori, chiesi: «sono stato chiaro?». Quello rispose: «certo, io sono dei Vergini, ma sono acculturato, che vi credete?, capisco». Il problema era che guardava in alto. Alzai lo sguardo anche io e mi accorsi che i piani erano sette! I tre originari, un quarto costruito sul lastrico di una volta, più altri tre piani fatti abusivamente negli ultimi cent’anni. Pazzesco! Tra il terzo e il quarto piano c’era ancora traccia del cornicione del casamento antico. Il quarto, il quinto e il sesto piano erano ciascuno di altezza molto inferiore ai primi tre. Il nostro incontro finì che lui chiese: «ma voi siete venuto da Roma per vedere questo palazzo?». «Sì». «Ah, bravo!».