I novelli sposi Maria Grazia ed Enrico Nacciarone erano partiti per Porto Maurizio. A casa erano rimasti la vedova Raffaela, Alberto ed Enrico. Alberto [102.1] era un gran bel giovane, di un’eleganza naturale, sobria ma consapevole del proprio rango sociale. Vestiva con giacca a quattro bottoni ma baveri larghi seppur molto chiusi; camicia a punte tonde e ravvicinate. Con due cerimonie separate, il 10 marzo 1898 in Comune e il succesivo 16 marzo nella parrocchia de’ Vergini, Alberto sposò Romilda De Martino [102.2][102.3][102.4], di sei anni più giovane, e andò ad abitare in un’altra strada dello stesso quartiere. Romilda, nata a Salerno, era la ragazza della porta accanto, nel vero senso del termine, perché abitava in via Montesilvano 13, nel fianco del medesimo casamento, esattamente dove c’era l’ingresso all’appartamento di Michele.
Nella vita Alberto fece il «delegato di P.S.». Lo scoprii quando nelle mie ricerche trovai il certificato comunale di morte [102.5] di Alberto. Nel Regno d’Italia, a una città capoluogo di provincia con più di centomila abitanti, com’era Napoli, veniva preposto un questore, mentre nelle città capoluogo di circondario c’erano uffici di Pubblica Sicurezza e facevano parte integrante degli uffici di sottoprefettura. Questi uffici, se di maggior importanza, venivano diretti da un vice ispettore o da un delegato anziano. Il delegato di Pubblica Sicurezza era un ufficiale dell’amministrazione subordinato al vice ispettore.
Cinque giorni dopo essere uscito di casa, il 15 marzo 1898, Alberto divise con la sorella e il fratello le rispettive quote di eredità, facendo praticamente a metà. In quella occasione si presentò Vincenzo Savino, quello che aveva prestato a Michele 3.500 lire in due volte, nel 1880 e 1889, e reclamò tutto il suo credito perché Michele non aveva rimborsato un centesimo ed era morto lasciando il debito sulle spalle dei figli. Maria Grazia ed Enrico si accollarono 1.793,29 lire. Le rimborsarono nel 1914, quindici anni dopo [102.6]. Alberto si accollò le restanti 1.706,71 lire, che pagò il 16 marzo, il giorno stesso del matrimonio religioso, prima di entrare in chiesa. Fantastico! Volle cominciare la vita di coppia spensieratamente.
Raffaela non provò vergogna come avrebbe dovuto. Si ritrovò a vivere a 65 anni insieme al figlio minore Enrico. Il giovanotto rimase da solo a prendersi cura della madre sotto il profilo affettivo e quello materiale. La metà del debito verso Savino (questa è una mia illazione) fu pagata per intero da Maria Grazia (chissà, forse, dal marito Nacciarone) come indennizzo per quanto Enrico faceva per la madre. Si sa bene cosa voglia dire per un ragazzo recidere il cordone ombelicale con una madre dalla forte personalità. E si sa quanto la cosa si complichi se vengano a mancare per morte o uscita di casa tutti gli altri membri della famiglia. C’è chi non riesce a trovare l’indipendenza e non si sposa più. E ci sono madri sciagurate che per egoismo non lasciano libertà al figlio. E il figlio continua ad adorare la madre non rendendosi conto di quanto sia sciagurata. Capita, eccome se capita.
Enrico crebbe critico verso la mollezza del padre, qualità che lui poté constatare il 3 giugno 1889, a undici anni, due settimane dopo aver fatto la prima comunione (il 19 maggio) nella Chiesa dei Padri Dell’Oratorio detti Girolamini [102.7]. Quella mattina di giugno, Enrico vide Maria Grazia tremare perché doveva andare da un certo notaio a impegnare la proprietà ereditata da zia Giuseppa, per garantire i debiti del padre. Solo per questo il legame di affetto tra Maria Grazia di 23 anni ed Enrico adolescente undicenne divenne più forte di quello tra i due e Alberto. L’esempio paterno, specie se negativo, ha un effetto sui figli superiore a quanto si possa prevedere.
Enrico arrivò perfino a provare una sorta di rancore verso il padre. Eppure, finì per seguirne sotto molti punti di vista il modello di vita, statico e orgoglioso: il 15 settembre 1896, giorno della morte di Michele, Enrico diciottenne decise che non avrebbe frequentato l’Università; seguì lo stile paterno dei baffi all’in su, sistemati ogni mattina mediante un fissabaffi di stringhe di cuoio che girando attorno alle orecchie si allacciavano dietro la nuca e strizzavano le labbra in fuori, neanche fossero quelle siliconate di una donna del Duemila; ne copiò l’eleganza del taglio degli abiti, che però non li uguagliavano in pregio delle stoffe; svolse una vita lavorativa da dignitoso ma pur sempre non svettante burocrate.
Negli anni Quaranta dell’Ottocento Samuel Morse inventò un sistema telegrafico elettrico basato sull’impiego di un filo e su uno speciale sistema, perciò chiamato Codice Morse, che permetteva di codificare le lettere alfabetiche in sequenze di impulsi di diversa durata (punti e linee). Il telegrafo elettromagnetico fu introdotto in Italia nel 1847 tra Pisa e Livorno da un certo Carlo Matteucci. Nel 1871 il fiorentino Antonio Meucci dimostrò il buon funzionamento del suo “telettròfono”, apparecchio progenitore del telefono. Fino al 1889, l’attività postale, telegrafica e telefonica fu gestita dal Ministero dei Lavori pubblici.
Le elezioni politiche nazionali del 1886 furono vinte dai partiti ministeriali con il 40% dei voti. All’epoca non esistevano partiti organizzati secondo il modello del Novecento; in ogni città i notabili fungevano da collettori di voti, riscuotevano e gestivano favori da chi una volta eletto aveva il potere di farli. Perciò i partiti che volevano andare al governo erano detti ministeriali; gli altri avevano vocazione da oppositori.
Dal 1886, alla guida dei ministeriali, Francesco Crispi, ex repubblicano mazziniano, meridionale, coetaneo di Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi, guidò un primo governo fino al 9 marzo 1889 e un secondo governo dal momento stesso delle dimissioni del primo. Il giorno dopo l’insediamento del secondo governo, il 10 marzo 1889, Crispi scisse in due il Ministero dei Lavori pubblici, costituì il Ministero delle Poste e Telegrafi e gli assegnò l’incarico di dotare il territorio nazionale di una rete capillare di uffici presso i quali si potesse: inoltrare e ricevere corrispondenza (anche telegrafica); fare e ricevere chiamate telefoniche; realizzare operazioni finanziarie e di gestione del risparmio. Per un certo periodo, inoltre, gli uffici postali fecero anche da sportello per i nascenti servizi elettrici. Crispi nominò Pietro Lacava ministro delle Poste e Telegrafi, non perché fosse un esperto del campo, non lo era, ma perché si era occupato di riforma elettorale e politicamente si era schierato con Crispi. Il ministero fu organizzato in 5 direzioni generali, cui facevano capo uffici centrali e periferici, con 19 direzioni compartimentali regionali, 95 direzioni provinciali e 18 circoli delle costruzioni.
Nel 1896 Guglielmo Marconi depositò il brevetto del telegrafo senza fili. Nel 1898 Milano fu rifornita dall’elettricità della centrale di Paderno Dugnano. Da quel momento la Banca Commerciale e il Credito Italiano finanziarono numerose importanti società elettriche. Nel 1899 a Napoli nacque la Società Meridionale di Elettricità a opera della Compagnia napoletana di illuminazione e gas, della Banca Commerciale e della Società Franco Suisse di Ginevra. Nel 1900 l’elettricità entrò nelle case di Napoli.
Enrico aveva sette anni quando arrivò l’invenzione di Meucci; undici anni quando fu creato il nuovo Ministero; diciotto anni all’introduzione del telegrafo senza fili e alla morte di Michele; ventidue quando Napoli fu elettrificata. Poco dopo, fu assunto alle Poste, nella Direzione provinciale di Napoli, “ufficiale postale”. Fece carriera per anzianità.
La fresca tradizione di libera professione della famiglia durò pochi decenni nell’Ottocento. Pasquale, avvocato, morì [102.8][102.9] scapolo l’11 luglio 1895. I figli di Pietro, ingegnere architetto, fecero altro nella vita: l’unico maschio sopravvissuto, Goffredo, fece il professore di matematica. A 49 anni Goffredo sposò [102.10][102.11] Maria Terrano, trentottenne, e andò ad abitare a vico S. Felice 8, a centodieci metri da S. Maria Antesaecula 112.
All’epoca come soprabito andava di moda il paletot, anche se i ricchi ambivano alla pelliccia. Enrico arrivò a portare il paletot con il collo di pelliccia. Portava giacca e calzoni attillati. Prediligeva abiti color tabacco. Al collo della camicia allacciava la farfalla, e continuò così anche dopo che a fine Ottocento comparve la cravatta come la conosciamo oggi. Come tutti, sotto la camicia indossava una maglia di lana a maniche lunghe d’inverno, di cotone a maniche corte d’estate. I guanti erano marroni o grigi per il giorno. Per reggere le calze, usava giarrettiere allacciate con fibbie sotto il ginocchio. Come tutti i giovani di rango, al dito di una mano portava un anello in oro con le sue iniziali EG incise e sovrapposte l’un l’altra. Usava un grosso orologio da taschino con catena. Per uso quotidiano acquistò un orologio Roskopf. Avversato dagli orologiai di La Chaux-de-Fonds i quali capirono che una produzione di massa avrebbe compromesso il loro lavoro, l’orologio Roskopf ebbe paradossalmente successo in tutte le classi sociali. Fu, in sostanza, uno Swatch ante litteram e ne vennero costruiti più di 20 milioni di esemplari. L’anello e quell’orologio oggi li posseggo io.
Inconsciamente, anche per autonomizzarsi dalla madre, Enrico cercò una guida affettiva. La fiamma si accese forte per Angelina Mola, carina, istruita, intelligente, sensibile, più grande di lui. A sua volta, Enrico era per Angelina il modello ben più gradevole e opposto al carabiniere irsuto. Il 14 luglio 1902, ad amore sbocciato, lei gli donò una foto «Formato Margherita» (dal nome della regina) con questa dedica ardita: «Al mio carissimo Enrico perché pensi sempre alla sua Angelina che l’ama assai assai 14/7/1902» [102.12]. Lui era bellissimo [102.13], con uno sguardo altero, elegante, sanamente ambizioso. Lui aveva 24 anni, lei quasi 30.
L’abito, indossato da Angelina nella foto, come spiega Pisetzky era alla moda: «la linea si modulava in serpentine sinuosità, accentuando le curve del seno e del tergo in contrasto con la vita sottile, resa artificialmente tale dal busto, per ottenere quello che si diceva il vitino di vespa»; le esponenti dell’alta borghesia sfoggiavano «sontuose stoffe come il velluto, il broccato e il raso, con l’ornamento di trine, ricami e lustrini»; i colori chiari erano quelli preferiti dalla regina Margherita.
Il matrimonio tra Enrico e Angelina fu programmato per aprile 1903. Tre mesi prima, il 29 gennaio, sul modello sostanzialmente liquidatorio del padre, Enrico si appellò alla sorella e vendette [102.14] il primo basso a destra del casamento di via S. Maria Antesaecula. Era il basso assegnato in origine a zia Tommasina, da questa lasciato in usufrutto a Michele e in nuda proprietà ai tre nipoti. L’usufrutto era poi passato a Raffaela vedova e la nuda proprietà a Maria Grazia ed Enrico quando Alberto si sposò. Il basso fu venduto al prezzo di mille lire a Cesare Palazzi, proprietario di un’altra porzione di S. Maria Antesaecula 112, con un rogito firmato a casa dell’avv. Giulio Mola, anch’egli ormai residente nello stesso casamento.
Invece di fare un passo indietro, Raffaela ne fece uno avanti: ottenne di convivere con gli sposi Enrico e Angelina.