La storia conta numerose coalizioni antifrancesi tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Organizzata a marzo 1799 come reazione alla campagna di Bonaparte in Egitto, la seconda di queste coalizioni fu promossa da Inghilterra e Turchia e si rafforzò con l’adesione dell’Austria, dei Borbone di Napoli e della Russia. Crollarono una a una le repubbliche sorte in Italia a partire dal 1797. Una successiva campagna di Bonaparte in Italia condusse dapprima nel mese di febbraio 1801 alla pace di Lunéville con l’Austria e un anno dopo (marzo 1802) alla pace di Amiens con l’Inghilterra, che ispirò numerose caricature. La pace durò quattordici mesi e venne rotta dalla dichiarazione di guerra dell’Inghilterra (maggio 1804). L’esito di queste coalizioni, guerre, paci per i reami europei era che via via, fortunatamente per loro, si dissolvevano le repubbliche nate dalle rivoluzioni locali dopo quella francese ma, sfortunatamente per loro, si ampliava l’area dell’egemonia di Napoleone, che ogni volta piazzava come delegato a regnare e governare un suo parente.
Nella primavera del 1805 si formò una terza coalizione, questa volta tra Inghilterra, Austria, Russia, Napoli e Svezia. Il 2 dicembre di quell’anno, dunque tanto per intenderci tre settimane prima della sentenza sull’arresto dell’inquilino di Michelangelo, Napoleone conquistò ad Austerlitz una vittoria in quel momento decisiva per la storia europea. Il 28 dicembre, conferì al suo generale Masséna l’ordine di unire le truppe e partire per il Mezzogiorno. Ferdinando IV rispose ordinando al generale Damas di asserragliarsi in Calabria per ostacolare l’avanzata francese, nominò Vicario del Regno suo figlio Francesco e il 23 gennaio 1806 fuggì una seconda volta a Palermo sulla nave Archimede. Il 10 febbraio Francesco istituì un Consiglio di reggenza e lasciò pure lui Napoli con l’esercito per andare in Calabria e in Sicilia. Il giorno dopo partì anche la regina Maria Carolina.
Il Generale Masséna, con un’operazione condotta con successo da due suoi vice, Gouvion-Saint Cyr e da Reynier, entrambi freschi reduci da successi militari in altre regioni italiane, con le truppe francesi entrò “pacificamente” nella città di Napoli e l’occupò militarmente. Bonaparte dichiarò decaduta la dinastia borbonica di Napoli e il 15 febbraio 1806 affidò il Regno di Napoli al proprio fratello maggiore, Giuseppe Bonaparte, per accontentarlo perché quello continuava a pretendere di diventare il suo successore al trono imperiale. Nelle province, alcuni briganti tentarono una resistenza antinapoleonica, sollecitati dai Borbone e poi da loro abbandonati; ma con la sconfitta e la condanna a morte del brigante di Itri Michele Pezza, detto Fra Diavolo, fu scongiurata la minaccia di una rivolta popolare diffusa, e fu stabilito il nuovo ordine napoleonico.
Napoleone spingeva il fratello Giuseppe ad aumentare le tasse e a rubare «senza riserve: nulla è sacro dopo una conquista». L’amministrazione che Giuseppe Bonaparte insediò a Napoli era prevalentemente straniera, composta dal còrso Cristoforo Saliceti, da Andrea Miot e Pier Luigi Roederer. Subito impostò, e per buona parte attuò, riforme radicali quali la soppressione degli ordini regolari e l’eversione della feudalità; in più istituì l’imposta fondiaria e un nuovo catasto onciario. Tutto ciò fu reso possibile dalla creazione di nuovi organismi, a partire dal Consiglio di Stato, con poteri distinti e specifici.
Sapete cosa scelse Giuseppe Bonaparte come sua residenza? La Reggia di Capodimonte! Furono settimane di ansia per Michelangelo e la famiglia [72.1], che si divise in tre correnti di pensiero, ma solo per così dire, perché non è che Michelangelo consentisse troppo pensiero libero a casa sua: i più religiosi, i reverendi Giovanni (38 anni) e Marco (26 anni), la terza figlia Rosa (che si era fatta suora) e il docile Luca (37 anni), erano indignati dalla sfrontata ventata di anticlericalismo dei francesi forgiatisi con la loro rivoluzione; altri, come Pietro e le figlie Maddalena e Maria, poco più che ventenne, erano incuriositi dalla fama del bonapartismo; Matteo, intraprendente trentatreenne, confidava in nuovi spazi finanziari e pregustava di accrescere la sua attività professionale. Ma Michelangelo, che in quel momento aveva 66 anni e ne aveva viste di cotte e di crude, era fortemente preoccupato.
I fatti che seguirono, purtroppo per i Gallo, dettero ragione al vecchio. Nel giro di pochi mesi, l’Intendenza di Casa Reale sequestrò molti “territori con casini” agli originari possessori per donarli a personalità di rilievo della Corte francese. I Francesi dissero ufficialmente che a spingerli a compiere questo gesto era stata una duplice esigenza: reperire le aree necessarie alla realizzazione della nuova Via dei Ponti Rossi; creare una fascia di sicurezza intorno alla Reggia.
Il quadro complessivo in cui il sequestro si iscrisse ovviamente era fatto da alcune ragioni molto nobili, e da altre per così dire meno. Le prime consistettero nel sopprimere il regime feudale, colpire le forme di vita dell’aristocrazia napoletana, avviare una modernizzazione infrastrutturale e architettonica della città.
Le seconde meno nobili e strategiche erano connesse al consiglio di Napoleone di fare bottino di guerra. Giuseppe Bonaparte aveva vinto militarmente, gli piaceva tutta la collina di Capodimonte, aveva una Corte famelica e arrogante da compensare dei favori e dei finanziamenti ricevuti in campagna militare. Poiché però per compensare i propri fidi c’è sempre tempo e la gratitudine è prospettica e mai retroattiva, Giuseppe Bonaparte sequestrò subito le proprietà altrui, le incamerò nell’Intendenza di Casa Reale, ma trovò comodo incassare da loro qualche altro servigio e donare i beni sequestrati solo tempo dopo.
I Bonaparte chiesero e appresero in un batter d’occhio quali fossero le amicizie politiche di ogni proprietario di masseria. Di Michelangelo seppero che era un mercante conservatore cattolico e filoborbonico, sia pur solo di fatto e non perché avesse svolto chissà quale attività antirivoluzionaria. Anzi, semmai apparteneva a una famiglia intimamente ostile a quella aristocrazia che era stata cliente mal pagante dei preziosi abiti di seta tessuti da Crescenzo. Il giudizio sommario dei francesi alimentò in ogni caso la tesi di molti storici secondo cui la borghesia meridionale cresciuta all’ombra del feudo non aveva acquisito una forte identità di sé come nuova classe per contrapporsi politicamente e idealmente ai ceti cui subentrava, pertanto non fu in grado di esercitare una vera e propria egemonia sul resto della società.
Fatto sta che la masseria di Michelangelo fu tra le prime a essere sequestrata, con un’efficienza amministrativa degna del regime francese, e fu poi donata nel 1808 da Giuseppe Bonaparte al cardinale Giuseppe Firrao, Grande Elemosiniere di Corte.
Come riferito da Di Lorenzo, il Casino Morra fu donato al duca di Cassano Gran Cacciatore, il Casino De Simone al principe di Gerace Primo Ciambellano, il Casino Amendola al principe di Stigliano Gran Ciambellano, il Casino Accadia al duca di S. Teodoro Gran Maestro di Cerimonia, il Casino De Angelis al cavalier Macedonio intendente di Real Casa.
Come pioggia sul bagnato, l’8 febbraio 1809, il principe di Capossele, il Duca di Noja (quello della mappa di Napoli) e il Barone Santo, creditori con altri di Gennaro e Tomaso Madia, chiesero al Tribunale di prima istanza di Napoli di essere assistiti nelle loro ragioni di credito dall’ipoteca sui beni dei Madia che quindici anni prima Michelangelo aveva fatto iscrivere a suo favore, a tutela del rischio di evizione dell’acquisto della masseria. Potete immaginare cosa Michelangelo rispose tramite il suo patrocinatore, Michele Ciavarria, al Tribunale di Prima Istanza di Napoli e ai tre nobili (principe, duca e barone) [72.2].
Nel 1806, all’indomani del sequestro, Michelangelo voleva presentare ricorso, ma Ciavarria gli ricordò i giacobini impiccati pochi anni prima dai Borbone; voleva forse rischiare pure lui la vita? Insomma, era stato ingiuriato, colpito negli averi, era accecato di rabbia. Incassava, però non demordeva. Si concentrava su come tutelare quel che gli restava e progettava nuove rivalse.
C’era tuttavia una differenza profonda tra come Crescenzo aveva reagito a qualche iniziale insuccesso lavorativo, quando aveva rafforzato carattere, amor proprio, grinta nelle trattative, e come invece Michelangelo reagiva ora al sequestro della masseria di Ponti Rossi, la sua proprietà più preziosa: lui non era capace di mantenere il controllo della situazione; solo apparentemente rimaneva imperturbato, in realtà covava rancore, voglia di rivalsa tanto forte da esser pronto a colpi di testa, a reazioni smodate, anche teatrali, ad elevato rischio.
Michelangelo era molto più debole di Crescenzo; perché essere duro significa restare sempre composto, con la testa sul collo, lucido, essere capace di andare a posizionarsi sull’ansa del fiume ad attendere il passaggio del cadavere del nemico. Michelangelo invece era impaziente, aveva bisogno di un riscatto agli occhi di tutti, e presto!