cap 70

Due settimane dopo, il 17 settembre, e fino al 24 dicembre 1805, proseguì la vicenda di polizia giudiziaria [70.1]. Il patrocinatore di D’Angelo si rivolse nuovamente al Soprintendente di Polizia Sig. Duca d’Ascoli: «È inalterabile Polizia della Capitale, che nessuno possa arrestarsi in casa per debiti. Questa Polizia è nota generalmente a tutti, e per questo i debitori pacificamente se ne stanno nelle loro case colla massima buona fede, senza che siano mai molestati: per modo che se qualche volta, per circostanze particolari occorresse permettersi l’arresto in casa, mai si fa, senza precedente liquidazione di tali circostanze, e senza far precedere un ordine formale al debitore, con cui se gl’intima, che cessi per lui ogni buona fede; e che la casa non gli sia più coniugio. L’essersi quindi arrestato nella propria casa senza precedenti tali solennità, lo stimai a ragione un attentato contra la buona fede; e che perciò si dovesse in essa restituire. Si aggiunge, che siffatta teoria generalmente ricevuta, viene anche particolarmente osservata dal Supremo Magistrato del Commercio, il quale non permette mai di carcerarsi i debitori, in virtù di lettere esecutoriali, che spedisce per causa di debiti, allorché i debitori stanno ritirati in casa. Sulle cose vicendevolmente dedotte, si prenda sommaria informazione e frattanto Onofrio D’Angelo si scarceri; data prima la cauzione di stare a ragione, e pagare il giudicato; visto l’esito del termine impartito; e si spediscano gli ordini. Intanto poi alla dedotta criminalità, il Sig. Commissario provvegga di giustizia… per quanto altro V.E. si è compiaciuta rescrivere alla mia umile rimostranza, per ogni altro riguardo della cennata pendenza, eseguirò ciecamente i suoi autorevoli comandi. Sono col solito, costante ossequio, e subordinazione».
In testa alla prima pagina dell’istanza, il 19 settembre il Soprintendente di Polizia annotò la decisione di far «restituire il carcerato nella propria casa; facendolo però guardare in casa come priggione a spese del Creditore» sotto la vigilanza di quattro uomini della Guardia di Polizia.
Dopo un’altra settimana ancora, il 25 settembre, Michelangelo avanzò «pretesa di volerla restringere a soli due individui della Polizia medesima». La pretesa fu subito accolta «non trovando ragione a obbligarsi il Creditore a un esorbitante dispendio, una cautela che riguarda se stesso, e che niun’altro ha diritto di esigere».
Il 28 settembre Michelangelo si lamentò che i due uomini di Polizia pretendevano «una mercede [ricompensa] eccessiva», mentre lui che era il creditore intendeva «pagar loro grana venti cinque al giorno per ciascuno». Due giorni dopo, il 30 settembre, approvò la proposta di compenso da somministrare.
L’11 ottobre Michelangelo chiese che «si richiamassero gli uomini della suddetta custodia, perché dice di aver conosciuta tale operazione piuttosto disfavorevole a suoi interessi». Il patrocinatore Gregorio Lamanna espresse il suo parere favorevole a ciò, con lettera ossequiosa al Soprintendente d’Ascoli: «Io mi fo il dovere di rassegnarlo alla sua sublime intelligenza, acciò possa compiacersi di onorarmi dei suoi savi oracoli. E col massimo profondo ossequio mi ripeto di V.E.».
Dalle indagini successive emerse che: ad aver eseguito l’arresto erano stati tre uomini di polizia, Giuseppe Ficarola alias Vermicellino, il caporale Gennaro Terracino, Raffaele Rocco alias Pazzariello; ad aver chiesto l’arresto era stato il 1° settembre Antonio Iascone figlio del Portiere del Tribunale del Commercio; un quinto componente la squadra era il «giovine del medesimo Portiere»; gli ultimi due si erano limitati a indicare qual era la casa del debitore e poi se ne erano andati; i tre uomini di polizia nell’interrogatorio avevano mentito, dicendo che l’arresto era avvenuto di giorno «alla grada [soglia] di casa» di D’Angelo, senza entrarvi, ma erano stati smentiti dai testimoni. In questo stato di cose il patrocinatore di D’Angelo propose come pena per gli uomini di Polizia «potersi infliggere sessanta legnate per ciascheduno in una maniera solenne; e quindi scarcerarli, abilitandoli all’impiego».
Michelangelo il 12 ottobre presentò ricorso, nel gergo una “supplica”. In essa spiegò che lui aveva dato in affitto un suo territorio a Onofrio D’Angelo a Ponti Rossi «in ducati quattrocento quindeci annui per 5 anni. Questi durante l’affitto attrassò di corrispondere ducati trecentocinquantaquattro. Doveva il D’Angelo altri ducati centocinquanta prestatigli fin dal primo anno del suo affitto, dei quali il debitore D’Angelo fece lettere di cambio in pubblica piazza». Quindi, avendo Michelangelo «domandato il suo credito, il D’Angelo si gravò di altre eccezioni presso del Tribunale del Commercio, le quali essendosi trovate insufficienti se ne spedirono dallo stesso Tribunale le lettere esecutoriali. E poiché il debitore sta oggi situato nella masseria di un tale Di Muria alli stessi Ponti Rossi, consapevole della Legge Generale: che non può essere catturato né di notte, né in casa, ha talmente combinata la sua condotta: che profittando dell’altura della sua masseria, la quale scopre i laterali tutti della stessa ogni qual volta che sta a travagliare, anche distante dalla sua casa si accorge: che una persona, pure non sospetta, si accosta a Lui, ha sempre tutto il tempo per ritirarsi: talmente che sono due mesi circa che non si è potuto catturare: né sarà possibile di catturarsi per la ragione indicata. Quindi si è: che in grazia della Legge Generale il D’Angelo si è reso: come un Prepotente che delude francamente lo sfogo della Giustizia ed il Supplicante [Michelangelo] resta quasi che disperato dal percepire il pagamento del suo credito. E non essendo stato mai dell’illibata intenzione della M.V. il permettere ciò, allorquando emanò detta Legge Generale, perciò ricorre e La supplica a degnarsi di dispensare alla enunciata Legge, come un’eccezione, che immancabilmente necessita lo attraversato sfogo della Giustizia, onde il giudizio introdotto non rimanga deluso, né il Supplicante resti disperato del suo credito». La memoria è firmata in originale «Io Michelangelo Gallo suppl. c: s:».
Il 15 ottobre, dunque appena un mese dopo gli avvenimenti, il Soprintendente di Polizia accolse la proposta di pena per i catturanti, ma la ridusse a cinquanta legnate.
L’intera vicenda si concluse definitivamente il 24 dicembre 1805, la vigilia di Natale, con una determinazione del Segretario di Stato che invitò il Soprintendente Generale di Polizia Sig. Duca d’Ascoli a far eseguire la pena proposta.
Non sappiamo se e quando Michelangelo recuperò il suo credito. Da una lettura attenta della vicenda emerge in ogni caso che:
a) il suo credito di 354 ducati (tralasciando il credito aggiuntivo di 150 ducati), rapportato all’affitto annuo di 415 ducati, si ragguagliava a dieci mesi di morosità. Molto, senza dubbio. Poiché le voci giravano, come oggi, sarebbe stato molto dannoso per la reputazione di Michelangelo oltre che per le sue finanze se non fosse intervenuto energicamente per recuperare tutto il credito. E poi quello della puntualità del pagamento era proprio un fatto di onore e di principio, sul quale Michelangelo non transigeva, perché era un pilastro portante di tutta la sua concezione di vita, insegnatagli da Crescenzo. Infine, fare il proprietario significava innanzitutto saper essere duro con gli inquilini. Dunque, Michelangelo aveva aspettato pure fin troppo!
b) molto probabilmente per spingere Antonio Iascone a chiedere l’arresto di Onofrio D’Angelo e per consentirgli di trovare uomini di polizia disposti a farlo, Michelangelo diede al giovane Antonio una bella mancia, lauta affinché fosse efficace e gli consentisse di riscuotere il credito, ma senza esagerare troppo, perché le grana erano pur sempre grana. Questa mossa della mancia per corrompere uomini di polizia sarà stata pure discutibile, ma per Michelangelo non era per nulla immorale, in confronto alla ben più grave immoralità del fatto che le autorità di polizia non riuscivano o non volevano fargli incassare una somma importante da un suo debitore;
c) considerati i modi (in casa del debitore, senza autorizzazione) e i tempi dell’operazione (domenica notte), e vista la reazione aspra del Soprintendente Generale di Polizia, pare difficile credere che il blitz fosse stato preventivamente – e magari anche solo tacitamente – concordato da Michelangelo con i vertici della Polizia stessa;
d) Michelangelo aveva una forte intraprendenza e una tenacia enormi, fino a sfiorare l’arroganza, era un uomo d’affari, duro, determinato a tutelare i propri sacrosanti diritti, pronto se del caso puntigliosamente a ricorrere a ogni strumento, senza però chissà quali coperture politiche, senza ascoltare suggerimenti saggi sulla tattica da seguire e senza ottenere risultati soddisfacenti.

About Riccardo Gallo
Riccardo Gallo (Roma, 23 settembre 1943) è un ingegnere, economista e docente italiano. Professore alla Sapienza, ha svolto compiti di risanamento del sistema produttivo italiano in ambiti governativi, finanziari, aziendali, riversando e incrociando le competenze acquisite. È stato definito il bastian contrario sia del management pubblico che del privatismo arrogante, estremista di centro. Ha collaborato con Il Sole 24 Ore. Oggi è opinionista de L’Espresso.
View all posts by Riccardo Gallo