Oltre alla Masseria di Posillipo, Crescenzo aveva donato a Giuseppe e Michelangelo la seteria gravata di tutti gli impegni a favore della loro madre, del fratello, delle sorelle, della figlia di uno, del figlio dell’altro. Verso la fine degli anni Ottanta del Settecento, a Giuseppe era rimasta ormai solo la figlia Maria Rosa, per di più monaca pinzoca. L’Arte della seta a Napoli era in procinto di chiudere i battenti. A S. Leucio si tentava di far nascere una moderna industria. Giuseppe e Michelangelo, che pure nei documenti erano sempre citati «fratelli germani», avevano temperamento diverso. Il primo era prudente, non intraprendente, ma ostinato e non remissivo. Michelangelo era ambizioso con manie di grandezza, come vedremo sempre meglio.
Dopo aver versato i 700 ducati a ciascuna delle loro due sorelle, Teresa e Rosa Maria, prima che morisse il Reverendo Pasquale e prima di versare 100 e poi altri 50 ducati all’altra sorella suor Marianna, il 15 gennaio gennaio del 1787 i due fratelli raggiunsero un accordo, perfezionato con atto notaio Domenico Massa di Napoli [63.1]. Giuseppe cedette a Michelangelo la metà di sua proprietà dell’intera attività d’impresa, del contenitore e del contenuto di merci in magazzino: «seterie [intese non come stabilimento industriale per la lavorazione della seta, bensì come negozio contenente assortimento di varî filati o tessuti di seta], stiglio [mobili e arredi di un negozio], accorsatura [tutto il necessario perché il negozio fosse accorsato, cioè (meridionale) ben avviato, molto frequentato], credenze ed ogni altro con li suddetti due fondachi, e con tutte le loro ragioni [attività e passività]». Michelangelo sollevò Giuseppe dagli obblighi a favore della madre, di fratelli, sorelle e nipoti, come stabiliti da Crescenzo, e in più gli riconobbe 10mila ducati. Questi corrispondevano a un arrotondamento per eccesso (mille in più) della metà di quanto (18mila) restava della somma ereditata (27mila), sottratto quanto (9mila) già versato agli altri co-eredi o da versare a questi vita natural durante.
Fu pattuito che i 10mila dovevano essere pagati in più tranche al tasso annuo del 6 percento; più esattamente, 4mila di questi 10mila furono versati nel giro di poco (due mesi) e quindi senza interessi («gratis»), a cominciare dai primi mille che furono pagati subito con «polisa notata fede» del 26 febbraio 1787. Gli interessi corrispondenti al 6% dei restanti 6mila ducati, cioè 360 ducati annui, i due fratelli decisero che Michelangelo li avrebbe pagati in tre quote uguali, ciascuna da 120 ducati, ogni quattro mesi. Questi 6mila ducati, tuttavia, potevano essere versati da Michelangelo a Giuseppe solo su richiesta o con l’accordo di quest’ultimo. In altri termini, finché Giuseppe non li avesse chiesti, Michelangelo sarebbe stato costretto a tenerseli e a continuare a pagargli l’interesse del 6%. Non solo, ma se Giuseppe «non avesse visto il negozio in buono stato», avrebbe potuto costringere Michelangelo a depositare la somma residua in banca, a maggiore garanzia del credito di Giuseppe. E questo diritto a vigilare sulla gestione (quindi sulla solvibilità) del debitore Michelangelo, Giuseppe se lo riservò anche a tutela degli altri eredi (Pasquale e le tre sorelle), i quali evidentemente si fidavano più del fratello maggiore che del secondo. Ovvero, Giuseppe si fece rilasciare delega dal fratello e dalle sorelle per poter contare di più nei confronti di Michelangelo.
Otto anni dopo, nel 1795, atto 4 marzo 1795 del notaio Massa [63.2], Giuseppe non aveva ancora consentito a Michelangelo di saldare il suo debito, e continuava a ricevere 360 ducati l’anno come interessi.
Invece, morto il 10 gennaio 1789 il Reverendo Pasquale che aveva attinto soltanto 200 ducati dai duemila di cui avrebbe potuto «disponere in vita», secondo quanto stabilito a suo tempo da Crescenzo («ad essolui assegnate»), aperto due giorni dopo il testamento di Pasquale dal fido notaio Massa, Michelangelo fece i conti e, come risulta dall’atto 26 gennaio 1789 notaio Massa [63.3] che feci trascrivere [63.4], diede mille ducati a saldo a Giuseppe, il quale quietanzò («Giuseppe ha quietato»).
Giuseppe dunque uscì dall’attività commerciale alla fine degli anni Ottanta del Settecento. Abbandonò l’Arte della seta, 21 anni dopo essersi immatricolato, ma con 35 anni di fatica sulle spalle, visto che aveva cominciato «fanciullo». Aveva quasi cinquant’anni. Minacciato a pochi metri dalla bottega della Real Colonia di S. Leucio, avvertì un’aria contraria all’artigianato. Entrò in un campo che oggi chiameremmo post-industriale. Si mise a prestare soldi. Peraltro non a usura, bensì in chiaro, a medio termine, con atti pubblici e ufficiali, a un tasso di interesse di mercato. Per cominciare, prestò duemila ducati a due anni «colla promessa dell’annuo interesse alla ragione del sei percento à favore di D. Nicola Pascali» e tremila alle stesse condizioni a Gio:Batta De Marino. Questi prestiti furono regolati da rogiti a cura del notaio Antonio Amoroso di Napoli [63.5]. Escluderei che questo Nicola Pascali fosse lo stesso Nicola Pascale tiraloro di Lucera, fornitore di fili d’oro e d’argento di Crescenzo 46 anni prima, nel 1741.
Al contrario di Giuseppe, che preferì uscire dall’Arte della seta, Michelangelo vi rimase e anzi vi investì. Diede alla sua attività una moderna veste societaria, con «ragione commerciale Michele e figli». Michelangelo, che all’epoca usava dunque solo la prima parte del suo nome, svolse nella famiglia il ruolo di concentratore delle proprietà di famiglia.
È interessante osservare che nel 1785 Crescenzo aveva fissato un tasso di interesse a carico di Giuseppe e Michelangelo e a beneficio del Reverendo don Pasquale nella misura del 4 percento della liquidità di 4mila ducati. Nel giro di pochi anni, il tasso di interesse sul debito di Michelangelo verso Giuseppe, sia sui prestiti di Giuseppe ai suoi debitori, fu fissato pari al 6 percento. In verità, l’indice dei prezzi al consumo in quegli anni non subì variazioni tanto importanti da giustificare quell’incremento di due punti percentuali. Dunque, è lecito supporre che il 6% fosse un tasso di mercato e che Crescenzo nello stabilire il 4% non avesse voluto caricare Giuseppe e Michelangelo di un gravame eccessivo.
È interessante che i 360 ducati che Michelangelo riconosceva ogni anno a Giuseppe si ragguagliavano a ben dieci volte i 36 ducati fissati da Crescenzo a favore di familiari preti e monache.
Infine, non può sfuggire un’enorme differenza tra i due fratelli in termini di durezza nello spuntare le migliori condizioni contrattuali. Il fatto che Giuseppe era il primogenito di Crescenzo e che Michelangelo era il secondo non basta a spiegare l’atteggiamento accomodante di Michelangelo. Viene piuttosto da pensare che, del padre, Giuseppe avesse ereditato la prudenza, la grinta, una certa dose di cinismo e Michelangelo solo l’ambizione sociale pericolosamente non supportata dalle altre qualità.