cap 55

Dopo aver sistemato tutti i suoi figli, poche settimane prima di affittare la masseria di Villanova, ormai quasi settantenne, Crescenzo instradò alla vita religiosa due nipoti: la primogenita di suo figlio Giuseppe e il primogenito di Michelangelo.
La «donzella» era appena adolescente, si chiamava Margarita [55.1]. Crescenzo stravedeva per quella ragazzina e gioiva all’idea di offrire al Signore qualche altra pecorella della sua famiglia. Giuseppe aveva avuto due figlie; l’altra si chiamava Maria Rosa [55.2], aveva cioè i due nomi in ordine scambiato della zia paterna, scomparsa quando lei era nata. Insomma Crescenzo decise che, almeno finché conservava le forze necessarie, si doveva occupare lui del futuro di queste due ragazze, a cominciare dalla prima.
Come aveva già fatto per suor Marianna nel 1759 e per Angela in capillis nel 1767, Crescenzo il 13 agosto 1779 con atto «notario Matteo d’Alesandro de Neapoli» [55.3] garantì anche a Margarita 36 ducati l’anno, provenienti dal reddito della masseria, per consentirle di diventare monaca di casa. Dell’atto notarile feci fare una trascrizione [55.4]. A distanza di venti anni, quella somma valeva un po’ meno ma Crescenzo non l’aggiornò, non sappiamo se per ignoranza della perdita di potere d’acquisto del ducato, o se per approssimazione visto che la perdita era modesta, o se perché beneficiari non erano più i figli, ma i nipoti, e dunque potevano accontentarsi.
«Soggiungendo esso signor D. Crescenzo in detta assertiva, come la detta D. Margarita sua nipote avendo stabilito di menar vita celibe e prendere l’abito di monaca del terzo ordine di S. Domenico in qualità di pinzoca nella propria casa ed indi fare la sua oblazione ed acciocché possa mantenersi in tale stato con proprietà e decoro, mosso ancora dall’amore ed affetto che esso D. Crescenzo porta a detta sua nipote, per le di lei rare qualità ed altre degne e giuste cause: fu risoluto di donarle per titolo di donazione irrevocabile tra vivi a titolo del suo patrimonio seu vitalizio annui ducati trentasei primi, precipui ed effettivi e sopra i primi frutti e rendite in ogn’anno perveniendi dalla massaria come sopra descritta».
I pinzochi o pinzocheri o bizzochi o bizzocheri erano nel Quattrocento gli appartenenti alla setta eretica dei Fraticelli che respingevano l’autorità pontificia e per la salvezza dichiaravano essenziale la povertà assoluta. Nel Settecento, tutte le monache bizzoche dovevano dimostrare di essere in possesso di un patrimonio che assicurasse loro una rendita minima di 36 ducati annui, che garantisse un tenore di vita decente e scongiurasse il ricorso alla questua. Come osservano Galasso e Valerio, non tutte però avevano alle spalle famiglie benestanti, non tutte erano economicamente indipendenti. Dunque, con quei 36 ducati Crescenzo le dava il minimo ma, al tempo stesso, le consentiva un’indipendenza economica benestante.
A Napoli, nella classifica per abito, in testa c’erano le domenicane, come appunto Margarita, e le carmelitane. Seguivano abbastanza staccate le francescane e le monache servite. L’abito delle bizzoche non era molto diverso da quelle delle monache di clausura appartenenti al loro stesso ordine religioso. Questo fatto creava non pochi problemi. Per esempio la gente, vedendo due o tre monache bizzoche girovagare insieme per le vie della città, malignava che fossero monache fuggite dalla clausura.
Ancora una volta Crescenzo non seppe rinunciare alla mentalità di porre condizioni risolutive. Perciò, stabilì come prima cosa che questa donazione andava a incidere su quanto sarebbe spettato a Giuseppe, suo figlio e padre di Margarita: «Con dichiarazione che li sudetti annui ducati trentasei ut supra donati ad essa D. Margarita sua vita durante tantum, vadino in parte di quella porzione che potrà spettare al detto D. Giuseppe Gallo figlio di esso D. Crescenzo e padre di essa D. Margarita, sopra i beni del medesimo D. Crescenzo dopo sua morte, quod absit, ab intestato».
In secondo luogo, la corresponsione di questa somma di 36 ducati annui doveva avere decorrenza «dal giorno che la medesima prenderà e sarà vestita dell’abito di detto ordine in avanti», e anzi la donazione aveva efficacia «purché la detta D. Margarita si facci [«Vadino», «si facci» testimoniano un uso oggi gravemente errato, e peraltro non raro, del congiuntivo da parte del notaio] monaca pinzoca di casa, ed anche se entrarà in qualche conservatorio o clausura abbia l’istesso effetto: ma se mai o non si vestirà monaca per qualsivoglia causa, o pure nello stato di monaca non perseverasse (il che non si crede) in tal caso la presente donazione ex nunc pro tunc s’abbia per nulla ed invalida, e come all’intutto non fatta, cessando la causa finale di tal donazione, e dovrà essa D. Margarita esser contenta di quella dote che sarà conveniente al suo signor padre D. Giuseppe assegnarle».
La sostanza cruda e dura e il tono quasi intimidatorio usati da Crescenzo lasciano pensare proprio che la povera Margarita, ancora ragazza, tanto amata da quel nonno severo, fosse indotta a farsi monaca senza una profonda, sincera vocazione religiosa, senza alcuna cognizione dei beni della vita terrena cui stava per rinunciare, il cui valore era superiore «alli annui ducati trentasei primi»! Altro che «avendo sua nipote Margarita stabilito di menar vita celibe e prendere l’abito di monaca»!
Come aggravante di queste conclusioni o, al contrario, come prova della mia personale incapacità a comprendere le logiche del tempo, vi informo che anche l’altra figlia di Giuseppe, Maria Rosa, prese i voti e si fece (o, meglio, fu fatta) monaca pinzoca.
Margarita risulta assente all’atto notarile di «donatio», quindi nemmeno le fu consentito di intervenire. Era presente invece Giuseppe, il padre, evidentemente alquanto succubo di Crescenzo e incapace di concedere un qualsiasi grado di libertà di scelta alle sue donzelle. Tra i testimoni c’era un tale Gennaro D’Apuzzo, cognome praianese, a riprova che Crescenzo aveva mantenuto rapporti con la comunità degli originari della costa amalfitana.
Per tutto il Settecento, le «pinzoche», o bizzoche, o monache di casa, assistite dai padri della Compagnia di Gesù, aprirono scuole di arti muliebri a ogni ceto sociale; insegnavano alle ragazze a ricamare, a fare calze, non invece a leggere e scrivere, né avrebbero potuto farlo perché erano esse stesse analfabete. Ciò è dimostrato dal segno della croce che quasi tutte apponevano in calce alla domanda indirizzata alle autorità ecclesiastiche per essere autorizzate a indossare l’abito di bizzoca.
Nel 1785, di Margarita non c’è più traccia. Probabilmente morì prima di quella data. La seconda figlia di Giuseppe, Maria Rosa, anche lei monaca bizzoca, visse in famiglia accanto alle cugine.
Michelangelo si era sposato con Catarina Masucci, come sappiamo, a maggio del 1767. Il primogenito, nato nove mesi dopo a febbraio 1768, era stato chiamato Giovanni [55.5]. Il 17 agosto 1783, con atto notaio Gaetano de Sio di Napoli, Crescenzo «mosso dall’amore ed affetto» costituì un «patrimonio sacro» per consentire al nipote, in quel momento appena quindicenne, di «potere ascendere alla prima clerical tonsura, ed indi agli ordini sacri» e, con tale patrimonio, poter «vivere più comodamente». Crescenzo «ha voluto, e vuole, che la donazione predetta abbia vigore, efficacia e fermezza qualora detto D. Giovanni volesse ascendere allo Stato Sacerdotale, e non Claustrale, e non volendo o non potendo per qualsivoglia ragione e causa esso D. Giovanni ascendere al Sacerdozio, o pure volesse farsi Religioso Claustrale extra l’abito di S. Pietro, in tal caso la donazione sudetta s’abbia e s’intenda per nulla, e li sudetti annui ducati trentasei s’abbiano per non donati…».
Dunque, un’altra differenza stupisce: mentre quella somma era garantita alla donzella che si faceva monaca, indipendentemente se fosse di clausura o meno, invece per il nipote maschio condizione necessaria era che il giovane ascendesse al Sacerdozio, non alla vita monacale di clausura. Tra poco tenteremo di dare un’interpretazione a questa differenza profonda di concezione.
Nel 1765, Genovesi scrisse che a Napoli un prete aveva bisogno per vivere di 24 o 26 grana al giorno, 9.500 grana (95 ducati) l’anno. Pertanto, i 36 ducati garantiti da Crescenzo a ciascun religioso di famiglia non potevano essere la base; avevano piuttosto una finalità integrativa e Crescenzo giustamente precisava dovessero servire per «vivere più comodamente».
In questi atti notarili della seconda metà del Settecento, Crescenzo veniva definito non più magnifico e maestro tessitore di drappi di seta, come nel 1741, bensì «pubblico mercadante di drappi di seta di questa città di Napoli». I cambiamenti erano tre: non c’era più l’appellativo magnifico; al posto di tessitore c’era mercadante; figurava l’aggettivo pubblico, cioè che fosse stimato era per così dire di dominio «pubblico», ovvero ancora e più semplicemente Crescenzo era un uomo «pubblico».

About Riccardo Gallo
Riccardo Gallo (Roma, 23 settembre 1943) è un ingegnere, economista e docente italiano. Professore alla Sapienza, ha svolto compiti di risanamento del sistema produttivo italiano in ambiti governativi, finanziari, aziendali, riversando e incrociando le competenze acquisite. È stato definito il bastian contrario sia del management pubblico che del privatismo arrogante, estremista di centro. Ha collaborato con Il Sole 24 Ore. Oggi è opinionista de L’Espresso.
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