Quando Carlo di Borbone divenne re, l’industria napoletana della seta era in condizioni per nulla floride, nonostante nel 1735 desse ancora lavoro a un quarto della popolazione della città. Secondo Rosalba Ragosta la tessitura, in particolare, aveva subìto cedimenti pochi anni prima, nell’ultimo periodo della dominazione austriaca. Tra il 1723 e il 1734 infatti era diminuito il numero di nuovi immatricolati all’Arte della seta, mercanti o maestri, ed erano calati i quantitativi di seta tinta in nero.
In precedenza, nei primi trent’anni del Settecento, al contrario le vendite erano aumentate perché sotto il viceré, che per la prima volta era austriaco e non spagnolo, Trieste e Fiume erano state dichiarate porti franchi e le loro piazze commerciali si erano aggiunte ai tradizionali mercati di sbocco della seta napoletana, cioè Genova, Sicilia, Sardegna, ma anche Portogallo, il quale fungeva da ponte verso il nuovo mondo.
Appena Carlo divenne re, gli industriali della seta di Napoli, preoccupati dalla crisi del settore, gli presentarono un memoriale con le loro analisi e proposte: partivano dalla constatazione che le esportazioni di tessuti erano calate perché la loro qualità, un tempo altissima, era scaduta; accusavano i consoli dell’Arte della seta, perché secondo loro non svolgevano i necessari controlli; chiedevano misure protezionistiche per combattere l’importazione di tessuti, ma al tempo stesso ne chiedevano altre liberali e permissive a favore dell’esportazione di seta grezza, ponendosi in questo modo contro la posizione della Dogana; inoltre addossavano ai mercanti la responsabilità dello scadimento della qualità dei drappi di seta, in particolare della loro perdita di peso; lamentavano il progressivo disuso di drappi di seta più pregiati, quelli ricamati in oro e argento.
La Sommaria e il sovrintendente d’Azienda risposero difendendo i consoli; sostennero che se c’erano importazioni sbagliate non era perché il governo le autorizzasse, ma perché il divieto veniva puntualmente aggirato. Se la competitività era bassa, dipendeva dall’eccessivo costo del lavoro. Per una soluzione dei problemi, venivano suggerite la «modernizzazione» (leggasi innovazione tecnologica) delle produzioni e forse qualche delocalizzazione lavorativa. Sembra leggere documenti dei primi anni Duemila.
Al di là delle opportunità di mercato e della congiuntura della produzione, nei primi decenni del Settecento una delle ragioni che impedivano all’industria della seta di evolvere a Napoli in sintonia con le tendenze internazionali era la scarsità di filati sottili per tessuti leggeri, sia perché questi filati erano prodotti in quantità insufficienti, sia perché venivano esportati, per lo più di contrabbando, con danno per l’azienda reale e per i consumatori. E in gran parte venivano esportati, sotto forma di seta grezza, proprio in Francia, dove si producevano i tanto pregiati tessuti leggeri. Il governo di Napoli corse ai ripari e il 10 giugno 1739, alla prima “Conferenza confidenziale sul commercio”, espresse l’orientamento a rilanciare le produzioni più moderne e a esporre alla concorrenza quelle più tradizionali.
Sono convinto che quello fu un momento storico di straordinaria importanza e che la politica industriale adottata da Carlo di Borbone nel campo della seta fu molto moderna. In generale, una politica industriale è valida se si limita a favorire innovazione e qualità dei prodotti attraverso acquisti oculati da parte della Pubblica Amministrazione, se sostiene la ricerca e l’innovazione, la concorrenza, la formazione professionale. Cioè se si astiene dal dare incentivi alle singole categorie di operatori, perché altrimenti altererebbe la concorrenza sul mercato.
Primo, la politica industriale di Carlo di Borbone fu moderna per il sostegno pubblico alla domanda di mercato più qualificata. Tanto per cominciare, pochi mesi dopo quella prima Conferenza, nel gennaio del 1740, la Corte reale diede il buon esempio e iniziò ad acquistare solo prodotti locali, rinunciando a quelli francesi: «le roi et la reine ont déclaré que L.M. ne porteroient à l’avenir que des draps, stoffe, voile, dentelles, galons etc. de les manifactures du pais». Da quel momento, poi, furono organizzate innumerevoli feste e cerimonie di corte nel Palazzo reale e nelle altre reggie e residenze. Tutta questa organizzazione portava a diffondere abiti di alta qualità e la relativa qualificatissima domanda di mercato ne sollecitava un miglioramento continuo, qualitativo e quantitativo.
Secondo, il governo reale aprì il mercato della seta alla concorrenza, e ancora oggi sappiamo quanto gli operatori che controllano il mercato vi si oppongano perché sanno di perdere posizioni. Più precisamente, il governo favorì l’apertura nei territori del Regno di nuove fabbriche ad opera di imprenditori tessili francesi, e ciò per realizzare una produzione idonea a sostituire le importazioni da altri paesi. Vennero così a insediarsi tessitori francesi come Boucharlat e Parisien nel 1740 e Boisson nel 1742. Re Carlo indossò abiti confezionati dai primi due in diverse cerimonie: lo fece a luglio del 1741 per l’onomastico della moglie; poi indossò a settembre per un impegno diplomatico un abito «di ricchissima stoffa d’argento e oro», e a ottobre si ripeté per il compleanno della madre, regina di Spagna.
Terzo, il governo borbonico con decreto in data 26 novembre 1739 istituì il Supremo Magistrato di Commercio. Questo organismo riservò per sé l’elaborazione e l’emanazione degli indirizzi di politica industriale, in primis l’obiettivo «che i drappi e le stoffe di seta riescano della maggior perfezione… possibile», e lasciò ai preesistenti consoli dell’Arte della seta compiti meramente esecutivi, quindi di assai minor potere.
Quarto, Carlo adottò una lungimirante politica di formazione professionale dei lavoranti, facendo venire nel 1742 da Lione un certo Buisson e con lui alcuni esperti operai. Questa cosa preoccupò molto la Francia che fece intervenire il suo ambasciatore a Napoli, il marchese de l’Hôpital.
Quinto, infine, tra il mese di aprile 1740 e il maggio 1741 il Supremo Magistrato di Commercio riscrisse le regole delle principali fasi di produzione: la trattura e la tessitura. Insomma, intervenne nella sfera chiamata nel Novecento “innovazione tecnologica”.
Per quanto riguardava la trattura, la cosa che più interessò Crescenzo e i praianesi fu la «Prammatica» del 21 maggio 1740, la circolare cioè nella quale il governo sollecitava che la seta fosse «fine e uguale», e che quella per gli orditi fosse sottile e tratta «a croce tonda». Solo quei filati, infatti, consentivano di ottenere tessuti leggeri, gli unici in grado di competere con quelli francesi nel soddisfare le sempre maggiori esigenze dei consumatori. Di questi filati c’era scarsità sul mercato per la resistenza dei vecchi produttori, quelli che oggi definiremmo “ex incumbent”, i quali non volevano accettare queste novità. Era però solo una questione di volontà e di convenienza di corto respiro, perché non c’erano difficoltà tecniche insormontabili che giustificassero la scarsità della loro produzione; tant’è vero che nelle province sud-orientali del Regno di Napoli gente capace di produrre filati di seta sottili ce n’era eccome. Ce n’era soprattutto a Praiano, dove quella produzione derivava sia da un’elevata qualità del baco da seta coltivato ad Agerola, sia dalla conoscenza di tecniche di avanguardia, che vi erano state portate da una comunità ebraica poco prima dell’anno Mille, come visto più volte in questo racconto.
Per quanto riguardava la tessitura, una successiva Prammatica, quella del 17 maggio 1741, conteneva una serie di regole: alcune ribadivano tecniche di lavorazione già ben note; altre stabilivano che le stoffe napoletane (nastri, drappi di seta) dovessero essere perfezionate, rese conformi «al gusto e al genio del secolo», appunto con l’impiego per gli orditi non più di «sete torte a due capi», come stabilito nel 1651 per i velluti, bensì di «piletti» (sete sottili).