Quello di “Magnifico” con cui nel Seicento ci si rivolgeva sia a Pietro Nicola sia a Carlo, il figlio notaio, era un titolo di rispetto che nel Rinascimento era stato attribuito a prìncipi, a grandi personaggi, a magistrati. Magnifico per antonomasia era stato nel Rinascimento Lorenzo de’ Medici.
Nel Settecento, quando il barocco conferì ampollosità anche alla comunicazione, il titolo fu riconosciuto con maggior larghezza specie negli atti ufficiali, meno in quelli ecclesiastici, e finì per indicare una buona posizione sociale del personaggio in questione, benestante, con disponibilità di beni, terreni e immobili, ma non necessariamente nobile. Era attribuito a chi ricopriva cariche pubbliche (sindaco, cancelliere, deputato, ecc.) o a medici, notai, giudici, mercanti, così come disse Matteo Camera dei mercanti, imprenditori dell’industria e del commercio, un «popolo, che nelle mercature e ne i commercij esercitandosi, ritiene vn grado venerabile trà citadini, e massime quando giunti alla possessione de gli haueri, si fanno spettabili, e magnifici nel cumulo di dinari, di fabrica, di splendori nell’Economia…».
In ogni caso, questo modo di distinzione era regolato non dal diritto, ma dall’uso e dalla consuetudine dei luoghi. Perciò, è essenziale comprendere il contesto locale. Nel Meridione il titolo di Magnifico veniva utilizzato proprio per indicare chi nobile non era ma apparteneva ad una “casta” superiore non solo al popolino ma anche ai proprietari medio-piccoli, apparteneva insomma a chi faceva parte di quella che oggi diremmo l’alta borghesia delle professioni. Nei piccoli centri era una specie di “laurea honoris causa” assegnata al più importante cittadino non nobile (medico, notaio, ecc.), per una forma di rispetto e per esaltarne lo stato sociale. In Sicilia il titolo di Magnificus era invece più importante perfino del Nobilis e fu usato fino al Novecento.
Nel Seicento i magnifici vivevano in “case palaziate”, così chiamate per distinguerle dal palazzo del feudatario del luogo. Insomma, Magnifico era una trasposizione protoborghese del dominus che abbiamo analizzato nei primi secoli dopo il Mille.
L’aumento della ricchezza e dei commerci si basò nel Rinascimento anche su una crescita dei traffici e, nel Regno di Napoli, su una intensificazione della navigazione commerciale costiera. Ciò avvenne in particolare lungo la costa di Amalfi che come sappiamo ha un retroterra troppo difficile per il trasporto di merci, a cominciare dal grano che era la più importante.
Le flotte militari furono molto spesso riorganizzate in mercantili e come conseguenza i sistemi di difesa ne furono indeboliti. Da un lato, ciò non sembrava grave se si pensa che vennero decenni di pace nel Mediterraneo, dall’altro lasciava le coste italiane esposte alle incursioni saracene, figlie dell’espansione islamica successiva alla morte di Maometto secoli addietro. Queste incursioni erano sempre più frequenti, si trasformavano in scorribande e saccheggi spietati, con bottini ricchissimi e sequestri. Uomini e donne venivano prelevati, diventavano oggetto di riscatto se appartenevano a famiglie agiate (150 scudi a persona), oppure venivano ridotti in schiavitù nei paesi arabi. Gli uomini, se fisicamente prestanti, erano destinati a essere schiavi incatenati ai remi, le donne solo in minima parte entravano negli harem (come raffigurato da Francesco Hayez [http://www.arte.it/opera/ruth-2418] mentre, per il resto, erano utilizzate nei servizi domestici. Cose pazzesche e drammatiche! Il fenomeno prese il nome di guerra di corsa, dal greco κουρσεύω, che significa saccheggio. Gli autori delle scorribande furono chiamati corsari.
Il 13 giugno 1558, le località di Massalubrense e Sorrento sulla penisola sorrentina, alle spalle della costa amalfitana, furono aggrediti da imbarcazioni turco-barbaresche. Furono deportati niente di meno che cinquemila abitanti. Ne tornarono solo un centinaio. Una cosa spaventosa! Dopo cinque anni, centinaia di pirati sbarcarono a Napoli e fecero altri danni, meno gravi ma ancor più eclatanti.
La situazione peggiorò dopo la battaglia di Lepanto del 1571, quando tra turchi e spagnoli fu sancita una tregua e come conseguenza, al posto della guerra di corsa governativa, per così dire legittima, in quanto autorizzata dal sultano ottomano, dilagò una pirateria incontrollabile. Nella prima metà del Seicento il fenomeno raggiunse picchi molto elevati.
Per cercare di fronteggiare questo fenomeno dilagante, sotto il vicereame furono riattivate antiche torri di avvistamento, spesso abbandonate dal Medioevo, e ne furono costruite di nuove. I beneficî furono evidenti. Nel giro di poco più di un secolo, la presenza di schiavi cristiani ad Algeri diminuì dalle 35mila unità del 1580 al migliaio di fine Seicento.
Le torri del periodo aragonese e, prima ancora, del periodo angioino erano a pianta circolare. Avevano diversi pregi: la superficie era più ampia, a parità di perimetro; non subivano impatti balistici perpendicolari, perché i colpi schizzavano sulla superficie cilindrica della torre e venivano deviati. Avevano il difetto che impedivano a chi stava dentro la torre di concentrare il tiro in un’unica direzione, perché ogni finestratura guardava in una direzione diversa.
Altre torri furono costruite o riadattate a impianto quadrato. Avevano pregi e difetti opposti, ovviamente.
Nel Seicento ne furono programmate complessivamente 400, secondo la logica anticorsara, a distanza di 2÷300 metri l’una dell’altra, così che ciascuna poteva vedere quella contigua e l’arco visuale era tutto coperto, da S. Benedetto del Tronto fino a Sud e, risalendo, fino a Gaeta, lungo duemila chilometri di costa.
La costa amalfitana era particolarmente esposta al rischio di aggressioni corsare, per tre ragioni principali. Innanzitutto, la ricchezza di insenature e promontori era ideale per tendere agguati. In secondo luogo, il commercio marittimo della vicina Napoli infittiva il cabotaggio. Infine, la densità abitativa e l’agiatezza degli abitanti era un richiamo per i corsari. La paura si trasformò certe volte in vera e propria fobia. Per esempio, per evitare il rischio di essere catturato dai pirati ed essere ridotto a schiavo, il latifondista Tommaso de Vivo di Amalfi si fece costruire un piccolo fortilizio tutto per sé, accessibile dall’esterno soltanto con una scala di corda.
Le due cose più difficili furono: allestire l’armamento delle torri, perché all’epoca nel Regno non c’era una moderna industria produttrice di cannoni; e poi organizzare il personale qualificato da destinare alle torri. Alla fine si scelsero i caporali dell’esercito regolare e si diedero a ognuno 4 ducati al mese.
Ai torrieri furono assegnati molti compiti: avvistamento dei corsari; difesa sia del traffico mercantile costiero, sia dei centri abitati; offesa contro gli aggressori. Tra i tanti problemi quello più frequente era che, mentre l’attività di avvistamento e difesa era ordinaria, normale, quotidiana, quella di offesa era straordinaria, si presentava con repentinità e i torrieri non erano allenati né capaci di svolgerla.
I soldati, insieme al caporale, risiedevano nella torre durante tutta la buona stagione. Le condizioni di vita erano sicuramente difficili. All’interno dell’unico piano abitativo si trovavano alcuni pagliericci, pochi sgabelli, un tavolo e forse una cassapanca. Appese alle pareti, alcune pentole, boccali, qualche archibugio. Una specie di camino serviva da riscaldamento invernale e da cucina quotidiana, l’acqua la si prendeva da una cisterna sottostante. L’accesso alle torri era vietato alle donne, anche se questa regola non valeva sempre; con il trascorrere dei decenni alcuni caporali si adattarono a vivere con l’intera famiglia nelle torri, restandovi in pratica fino alla morte e lasciando, certe volte, la mansione in eredità ai figli.
A Vettica Maggiore e Praiano le torri anticorsare erano quattro: Torre La Gavitella [37.1] sul tratto di costa così chiamato, lato Vettica Maggiore, torre che negli anni quaranta del Novecento fu maldestramente trasformata in civile abitazione; Torre di Grado [37.2] sull’omonima caletta a sud di Casa Gallo a Vettica Maggiore; Torre a Mare [37.3], anticamente indicata “A mare”, prima di Praia andando verso Amalfi, e poco distante a est da Casa Gallo di Praiano; Torre Assiola o Sciola [37.4], molto più antica e sovrastante le altre, sopra il cimitero. Queste torri furono più volte riadattate nel corso dei secoli, e nel Novecento furono ristrutturate e in parte privatizzate. Oggi di Torre Assiola resta solo qualche rudere molto difficoltoso da individuare a occhio nudo per chi non è del posto. Non solo ma, non so per quale misteriosa ragione, alcuni cartelli stradali comunali e alcune guide turistiche indicano erroneamente la Torre a Mare come Torre Sciola.