Carlo Gallo poco più che venticinquenne e Nuntia di Montorio poco meno che ventenne si sposarono nella parrocchia di S. Luca a Praiano venerdì 7 giugno 1596, dopo che erano state fatte le tre “admonitioni” pubbliche prescritte dal Concilio di Trento; la cerimonia fu officiata [25.1] da don Fabrizio Gallo: «Essendosi fatti li tre denuntie tra Carlo Gallo et Nuntia Montorio nõ essendoci stato revellato cosa ma siane solo quello del quale sen de he ottenuta dispenza è stato cõtratto il matrimonio in faciem ecclesiae Sanctae Mariae. D. Fabritio Gallo presẽte, Oratio Gallo, Cola Crisconio et altri, hogi lì 7 de giugno i596». Questi ultimi due verosimilmente intervennero come testimoni.
I lavori edili erano finiti da alcuni anni e la chiesa risplendeva nel suo massimo fulgore.
Carlo Gallo nacque una decina d’anni dopo il 1558, anno in cui il 21 settembre morì l’imperatore Carlo V, il potentissimo regnante che aveva dominato la prima metà di quel secolo. La fama dell’imperatore si propagò a Napoli e nel Regno, e sulla costa amalfitana, assieme alle notizie provenienti dal Concilio di Trento. La famiglia Gallo era molto cattolica e non poteva non subire il fascino dei regnanti. Come potevano chiamarlo quel figlio nato in quegli anni se non Carlo?
A partire da questo Carlo Gallo [25.2] del Cinquecento, attraverso la mia ricerca, gradualmente, un paio di secoli alla volta, costruii l’albero genealogico della famiglia.
I genitori di Nuntia [25.3], i de Montorio, erano un’antica famiglia di Praiano e di Vettica Maggiore, come scrive Giuseppe Gargano. Nuntia nacque intorno al 1576. Aveva sei-sette anni meno di Carlo, impersonificava l’eleganza femminile leggera e delicata. Carlo giovinetto la seguiva con lo sguardo a distanza, la vedeva allungarsi, ne carpiva gli sguardi languidi, fuggevoli. A sedici anni Nuntia vestiva con il rigore formale derivato dal Concilio di Trento, ma anche alla moda dell’epoca, sotto il chiaro influsso dei costumi spagnoli degli Asburgo, regnanti a Napoli dal 1516.
Nuntia portava con più piacere semplici vestitini interi con maniche, le cosiddette baschine spagnole (si scriveva basquine), molto accollate, attillate fino in vita in modo da metterle in risalto la vita sottile, poi dalla vita in giù si allargavano. D’altra parte la ragazza trascorreva il tempo salendo e scendendo con grazia e spensieratezza le scalinatelle di Praiano e come avrebbe potuto indossare abiti attillati dalla vita in giù? Alcune baschine avevano una punta civettuola che si allungava sul davanti, al centro del ventre, verso l’inguine. Come scrive Levi Pisetzky, erano a tinta unita, nere o turchine, o verdi, spesso di seta locale.
La baschina era più o meno quella che nelle altre regioni italiane era detta “sottana” in quanto doveva essere indossata sotto una “sopravveste”; in Sicilia più spesso era indossata sotto un mantello. Nel parlare comune, Nuntia la sopravvesta la chiamava semplicemente “vesta” o “roba”, e quella di tutti i giorni la chiamava “robetta” o “mezzaroba”. Questa era di stoffa pesante, ornata e foderata, ampia, qualche volta aperta dalla cintura in giù, specie quando doveva lasciar scorgere la baschina con la punta allungata sul davanti. Le maniche della roba erano strette e alla ragazzetta piaceva molto la moda di una finestrella sulla manica all’altezza del gomito. Con l’altra mano non faceva altro che accarezzarsi il gomito che spuntava dalla finestrella. Siccome però in costa amalfitana il clima è spesso mite, Nuntia tutte le volte che poteva si metteva solo la baschina. La madre voleva che si mettesse pure la mezzaroba, perché non prendesse freddo.
Quando voleva essere un po’ più elegante, specie da grandicella, Nuntia si metteva una baschina in velluto non accollata, con una scollatura quadrata, ma comunque sempre attillata. Ornava la scollatura con una collana di corallo con un fermaglio d’oro.
Altre novità di moda a quell’epoca erano le calze, specie quelle di Conca, fatte “ad aco”, un po’ elastiche; avevano il pregio di permettere di piegare le gambe, mentre quelle di stoffa imponevano alle donne di mettersi un legaccio sotto il ginocchio. Questi legacci li chiamavano “centoli delle calze”. Le scarpe di Nuntia avevano la punta “a muso di bue”, come si diceva all’epoca. Tutte le volte che poteva, i capelli li acconciava con fiori freschi colorati e profumati della costa. A uno degli ultimi suoi compleanni i genitori le avevano regalato una coppia di circelli, cioè di orecchini a forma di semplici cerchietti d’oro, ma a Nuntia chissà perché non piacevano e non se li metteva mai.
Carlo s’innamorò di questa signorinella in stile botticelliano, moderna ma semplice. Quella femminilità sorgente, adolescenziale, tanto intrisa di moda leggera, gli entrò nella pelle, nella pelle giovane ma ruvida per il sale dell’aria di mare. Come tutti i giovani dell’epoca, Carlo portava capelli corti, barba e baffi, anch’essi corti e curati. Per abbigliamento, alternava nelle diverse circostanze: il sajo di panno; una cappa di raso con cappuccio orlato di velluto; una casacca grigia legata ai fianchi da una cintura; un giubbone di fustagno nero con davanti una fenditura lunga fino al collo, da cui sporgeva il collettino liscio e risvoltato della camicia e maniche di raso bruno. Insomma Carlo e Nuntia erano due bei giovani del Cinquecento, lui la prendeva per mano, lei imparò a guidarlo.
Otto mesi e venti giorni dopo quel 7 giugno del 1596, giorno del loro matrimonio, precisamente il 26 febbraio 1597, nacque Beatrice [25.4][25.5], la loro primogenita. Dopo altri due anni, il 2 luglio («giuglio» nel registro, così si diceva) del 1599, nacque Gio:Diminico [25.6][25.7], che per il resto della sua vita sarà chiamato da tutti Minico, anche nei documenti ufficiali.
Quando mia moglie e io trovammo nell’indice del registro dei battesimi di S. Luca la nascita di Minico, sinceramente non capimmo che nome ci fosse scritto, leggevamo sette zampe di gallina di fila seguite da “co”. Fu don Luigi, il parroco, a dirci che le zampe di gallina significavano “mini” (tre zampe per la m, due per la n e una ciascuna per le due i) e che quella parola era “minico”, abbreviazione di Domenico.
Carlo e Nuntia ebbero altri quattro figli: il 23 marzo 1604 nacque Gio:Frãcesco [25.8][25.9]. Dopo sette anni trascorsi senza gravidanze portate a termine, dunque quindici anni dopo il matrimonio, il 15 giugno 1611 nacque Faustina [25.10][25.11]; in un successivo documento del Seicento fu scritto Fraustina con la erre e questa variante rimase in molti altri certificati; l’anno 1611 nel registro parrocchiale è scritto così: i6ÿ, perché all’epoca il numero uno veniva scritto con una i minuscola e l’undici con la ÿ. Il 31 agosto 1613 nacque Nofrio [25.12][25.13]; questo bambino fu sfortunato, perché a tredici anni («in età pueritia»), l’8 febbraio 1627, morì tragicamente [25.14]. Il 26 giugno 1618 nacque Giulia [25.15][25.16]; nei secoli scorsi, le donne avevano gravidanze fino ai 42 anni; poiché questa fu l’ultima gravidanza di Nuntia, si desume che era nata 42 anni prima, dunque nel 1576.
È possibile che lo stemma in via G. Marconi 38 a Praiano, datato 1614, fosse davvero della famiglia Gallo. In tal caso, attribuirebbe quella abitazione a Carlo e Nuntia, che nel 1614 erano sposati da diciotto anni e avevano tre figli maschi: Gio. Francesco, Minico, Nofrio, tanti quante erano le stelle che significavano i rami maschili della posterità.
Carlo Gallo il 6 febbraio 1638, settantenne, morì a Praiano «con tutti li sacramenti di Santa Chiesa» [25.17]. Era sabato. Le esequie si svolsero il giorno dopo, domenica, nella parrocchia di S. Luca gremita all’inverosimile. Perché Carlo era stato un signore sobrio e schivo, non un personaggio pubblico, uno abitudinario, fedele al Signore e alla famiglia, esattamente come tutti i praianesi.