Don Fabrizio Gallo fu designato primo parroco di S. Luca dalla comunità locale dei fedeli, non nominato dalla Diocesi perché questa, sotto la pressione della Riforma protestante, fece un’incredibile apertura democratica alla popolazione.
Don Fabrizio aveva qualche anno più di tutti gli altri maschi Gallo che abbiamo incontrato nel capitolo 13, era nato prima di metà Cinquecento. Fu scelto dalla comunità perché era sacerdote saggio, carismatico, probo, capace come parroco sia di rappresentare i valori di rinnovamento morale del Concilio di Trento, sia di attuare la nuova organizzazione della parrocchia, sia di unire i fedeli di S. Giovanni e quelli di S. Luca, le due chiese in gara per diventare parrocchia. Ma fu scelto anche per il suo temperamento risoluto, autoritario, inflessibile, che ben si attagliava all’identikit stabilito dalla Chiesa nel disegno strategico della Controriforma.
Nel suo ufficio di primo parroco di Praiano, don Fabrizio affrontò subito una crisi morale duplice e contestuale: la corruzione delle gerarchie ecclesiastiche e quella dei Piccolomini duchi di Amalfi. In altre parole, fu chiamato a essere al tempo stesso esempio morale per tutti, sacerdoti e fedeli; pastore di pecorelle semplici del Signore, ma al tempo stesso fustigatore dei costumi dell’epoca, implacabile repressore di ogni tentazione libertaria. Nei suoi sermoni domenicali con voce stentorea don Fabrizio usava l’accortezza di essere bonario, non falsamente buonista, ma severo e assillante controllore del comportamento quotidiano di ognuna delle anime di Praiano. Il compito di interpretare sul piano locale i canoni della Controriforma non fu difficile per la semplice ragione che a Praiano, territorialmente tanto chiusa, la riforma protestante praticamente non arrivò mai.
A ogni modo, don Fabrizio fu capace di rappresentare i valori di rinnovamento morale anche perché veniva da una famiglia di antichi e specchiati costumi e perché tra gli abitanti della piccola comunità di Praiano era uno di loro, non veniva da fuori e non era aristocratico come lo era invece Jo:Andrea del Jodice di Amalfi, rettore della chiesa di S. Luca prima che Fabrizio ne divenisse parroco. Don Fabrizio fu sempre imparziale, non mostrò mai cedimenti di debolezza, nemmeno in favore della sua famiglia.
Affrontò l’organizzazione dei registri della Parrocchia. Si chiese subito se dovesse cominciare con un registro nuovo e intonso o se potesse proseguire quello già iniziato da poche pagine dal suo predecessore provvisorio del Jodice. Chiese consiglio all’arcivescovo, anche se questa cosa poteva sembrare di minore importanza, e lo fece per tranquillizzare la curia di Amalfi ché lui non voleva sfuggire al controllo della gerarchia ecclesiastica sol perché era stato designato dalla Comunità. Preferì la continuità per non disorientare i parrocchiani, proseguì cioè ad annotare battesimi e matrimoni sulle pagine già cominciate. Come differenza di impostazione grafica impiegò la sua calligrafia [23.1], più regolare e alta di quella di Jo:Andrea del Jodice [23.2].
A metà ottobre del 1593 il vescovo decise di svolgere una visita pastoral alle parrocchie della Diocesi. Fece il giro passando per Agerola, per poi scendere verso S. Luca di Praiano attraverso Bomerano e la troppo rischiosa via pubblica. Ma, appena cominciata la discesa, cadde e dovette rinunciare a proseguire la visita. Mandò avanti in sua vece il vicario Giannotto Ferrigno, il quale arrivò prima a S. Maria di Costantinopoli, poi a S. Luca e fu ricevuto da don Fabrizio Gallo. Il giorno dopo visitò la cappella di S. Tommaso. Tutto questo risulta da una relazione su tutte le visite pastorali nei secoli passati, curata da don Gennaro Fusco, l’ex parroco di S. Gennaro a Vettica Maggiore.
Don Fabrizio capì poi che doveva spendere la sua credibilità in un’urgente attività di “fund raising” come si direbbe oggi, cioè di raccolta di risorse finanziarie, per coprire le spese di ristrutturazione della parrocchia. Poiché chiamate a sborsare il danaro erano soprattutto le famiglie più agiate e potenti, don Fabrizio curò di essere ascoltato e accettato. Anche su questo versante, giocò a suo favore che lui era uno di loro.
Ma furono determinanti altri quattro aspetti: innanzitutto mantenne sempre un basso profilo comportamentale, nel senso che non si montò la testa per essere diventato parroco e nella sua vita privata non offrì mai il fianco ad alcuna critica malevola.
In secondo luogo, coinvolse tutta l’università nelle decisioni da prendere in ordine ai lavori edili di sistemazione della parrocchia, non perché sul posto ci fossero esperti di costruzioni, ma perché la gente soffre meno a sacrificarsi finanziariamente quando sa con precisione a cosa servano i soldi ai quali rinuncia e quando i soldi vanno a investimenti in immobili, visibili e materialmente tangibili; anche su queste scelte si comportò come per i registri, privilegiò la continuità e migliorò l’estetica. Il parroco insomma raccolse consenso, perché la gente vuole sempre queste due cose, continuità ed estetica.
In terzo luogo, curò di essere assolutamente trasparente nella gestione della tesoreria, cioè della cassa liquida, e nella erogazione dei fondi per pagare i fornitori. Fece in modo che i giovani di Praiano ancorché privi di vocazione per quel mestiere partecipassero ai lavori su base volontaria, magari sotto la guida esperta di “maestri di muro e intraprenditori di fabbriche cavesi”, come Giovan Camillo de Giordano e Giovanni Gentile de Dominico, o come Pignaloso Cafaro e Vincenzo della Monica.
«In una relazione di luglio 1597 furono esposte al Consiglio Collaterale le gravi difficoltà economiche dell’amministrazione municipale, che, a petto di un introito annuo di 1181 ducati, sopportava un esito di 1374 ducati», con uno sbilancio di 193 ducati, pari al 16%.
Riuscii a trovare preziose testimonianze sulla raccolta di soldi che don Fabrizio fece tra il 1594 e il 1595 nei conti delle universitas custodite dall’Archivio di Stato di Napoli. Questi conti furono centralizzati nel 1731 per ordine di Aloys Thomas Raimund, viceré austriaco di Napoli. Trovai quattro annotazioni contabili:
a) [23.3] «Io D. Fabritio Gallo rettore et cappellano delli venerabile chiese S. Luca e S. Giovanni della terra de Praiano dico à dal magnifico monsignor Damiano Crapiglione sindico de detta terra docati vinti in parte di quello me deve detta università per la provisione mia, prometto farle buoni altritanti, il che essendo la verità ho fatto la presente scritta et sottoscritta da mia propria mano hogi li 15 de gennaro 1595. Idem qui supra D. Fabritius Gallus. Io donno Andrea Rispolo sono testimonio. Io D. Daniele Ferraiolo sono testimonio».
b) «Pagato a don Frabicio Gallo per la predica di questa quatragesima a carta 33 [cioè a pagina 33]: ducati 12.0».
c) «Pagato a don Frabicio Gallo parchiano di Santo Luca in parte di la sua provisione che si deve: ducati 20.2.00».
d) «Pagato di elimosina per mano di don Frabicio Gallo ad uno monaco che vende [venne] a confesare in Praiano ducati 0.2.10». «A carta 35», c’è anche l’annotazione dell’importo di quattro ducati «pagato a Varone Irage masto di Santo Genoario per la frabica che è fatta in detta chiesia», cioè pagato al mastro Varone Irace per lavori nella parrocchia di S. Gennaro di Vettica Maggiore.
Non vorrei proseguire a elogiare l’accorta parsimonia di don Fabrizio ma, in confronto a come vanno le cose oggi, fu ammirevole il suo sforzo per coinvolgere la Comunità, far progettare le opere, sottoporle all’arcivescovo in modo discreto, far accettare le modifiche a progettisti che si credevano artisti e non volevano cambiare una pietra, raccogliere i soldi, scegliere i mastri.
Il capolavoro finale don Fabrizio lo fece però in tarda età, nel 1600 quando, secondo il racconto di Matteo Camera, tormentò e convinse un frate cappuccino del convento di Amalfi a donare alla parrocchia di Praiano una reliquia di S. Luca, a sua volta ottenuta dal reliquiario del Monastero di Montevergine di Avellino.
Per immaginare come andò questa vicenda, devo premettere che a fine Cinquecento tutta la comunità veniva amministrata in modo probo come fosse una sorta di grande condominio di persone oneste. Uno dei praianesi più stimati fu eletto amministratore della comunità. Aprì un conto al Banco di Pietà di Napoli («banco di la Pieta di la Nonziata»), curò di annotare tutto, quanto spendeva per esempio per comprare ad Amalfi il grano per tutta la comunità o per le esigenze del solo fornaio, conteggiando a parte il compenso per la propria missione e il viaggio; prese l’abitudine di conservare tutte le ricevute per mostrarle all’incaricato del controllo dei conti. Spulciando nelle carte di questa contabilità dell’amministratore, assistito da una bravissima trascrittrice, io feci scoperte sensazionali.
Martedì 1° novembre 1594 arrivarono a Praiano due frati del Monastero di Montevergine per fare questua. Avevano percorso settanta chilometri. Don Fabrizio sapeva che in quel Monastero era custodita una reliquia di S. Luca. Allora pregò l’amministratore dell’universitas di ospitare i due frati e dargli anche qualche soldo. L’amministratore annotò: «si le è dato strame e lietto per dui notti, spiso ducati: 0. 1. 10», «E più se le è dato di elimosina per ordine di le eletti: ducati 0. 2.». Strame era l’erba tagliata e seccata, foraggio per il bestiame. Dunque, una sorta di bed&breakfast ante litteram.
Poi don Fabrizio e l’amministratore mandarono i due frati al Convento dei Cappuccini ad Amalfi e si adoperarono affinché i cappuccini, ben più danarosi, acquistassero la reliquia dai poveri frati di Montevergine. Come terzo passo, dopo qualche anno, nel 1600, convinsero i cappuccini a donare la reliquia alla parrocchia di S. Luca. In tre mosse, Don Fabrizio e l’amministratore fecero un capolavoro diplomatico, senza tirare fuori nemmeno una frazione di ducato.