Il Reverendo Giovanni Gallo «nacque in Napoli da onorevoli genitori, il mille ottocento tre», così recita l’Orazione funebre scritta e letta ai funerali di Giovanni, pubblicata nel 1853 su La Scienza e la Fede [90.1]. Fin da giovane insegnò al Seminario della città: «D’assai acerba età fu messo ad ammaestramento del nostro Seminario Urbano… Sin da que’ giorni dette molto a sperare di sé, e tutti ne facean buon pronosticamento». Di lui si è già detto che era molto portato per la letteratura: «Ma promosso alle sacre Ordini, dettesi a basta lena [con il massimo delle sue forze] alle lettere, e parve che altri occhi non avesse in capo, che esse. In quella stagione il marchese Basilio Puoti, il marchese di Montrone con altri valentuomini, e nelle scuole loro i Barnabiti, faticavano a rimettere in voga e rinfiammare tra noi le lettere italiane… Un poco dunque alla guida del Puoti, e più ancora da sè stesso a studiar nella nostra lingua, e detteci dentro a tutt’uomo, frugando tritamente e per disteso in que’ grandi del Trecento e del Cinquecento. E bello e centuplo frutto e’ ne raccolse… Farebbe dunque opera pregiata chi pigliasse a raccorre [raccogliere] in un bel volume tutte le orazioni di Giovanni Gallo. Alcune cose egli ancora dettò per varii giornali. Ed ancora elegante dicitore fu, ma poco veemente. Alle lettere e’ congiunse la perizia delle scienze; e soprattutto delle cose canoniche e morali, di cui dette be’ saggi nelle varie sostenute tenzoni, e in ispezialità nell’ultima, di cui menò palma, venendo con tanta sua gloria levato all’ofizio di Canonico Penitenziere del nostro Duomo». In quegli anni a Napoli gli ecclesiastici del clero secolare erano 3.400; molto più rari i professori di letteratura, meno di sessanta, secondo i calcoli di Galasso.
I guai finanziari della famiglia fecero soffrire molto Giovanni, sia per i sacrifici che affrontò, sia per le umiliazioni che subì: «Ma a Dio piacque di saggiarlo colla tribolazione. Dall’opulenza videsi ridotto in grande stremo. Così gli era d’uopo sopperire a quelle angustie familiari con stenti. Qualche salario gli veniva largito. Da Monsignor Giuseppe Mazzetti, quello di catechista del Collegio del Salvatore, e del Collegio medico-cerusico. Dal buon Principe d’Ardore fu chiamato a catechista del regio gineceo d’educazione in san Marcellino. Il benemerito nostro Cardinale Arcivescovo commise gli d’insegnar eloquenza italiana, nelle scuole arcivescovili. Con quanto zelo egli il facesse, e con quanto pro il sappiamo noi…». E si vede, aggiungeremmo noi oggi, quanto, troppo eloquio ed enfasi.
I guai non erano solo finanziari, erano anche e soprattutto legali, per l’assalto dei creditori al patrimonio immobiliare di famiglia e per la cattiva difesa da parte di avvocati incapaci e senza scrupoli: «Nondimeno in mezzo a quelle sventure, agli assidui piati [contenziosi legali], ed agli abbindoli ed uncini degli uomini del foro, che è strazio tanto increscioso, egli non si scorò, ma con volto dimesso se ne riportava al voler di Dio. Né per le umiliazioni che gl’incontravano, inchinò mai l’animo a piaggiamenti, od andare a seconda delle altrui sentenze, ch’egli credeva non conformi al vero…». Quest’ultima frase certamente vuol significare che Giovanni non si piegò agli altrui principî morali e religiosi; però può anche testimoniare il fatto che i giovani Gallo erano convinti delle proprie ragioni e del fatto che stessero subendo torti gravissimi dall’amministrazione della Giustizia del Regno.
Dunque, per arrotondare i suoi introiti, Giovanni dovette insegnare in vari istituti e, tra questi, anche nell’Educandato di San Marcellino, dove oggi ha sede l’Istituto tecnico femminile Elena di Savoia, Largo San Marcellino 15 [90.2], Napoli, alle spalle dell’Archivio di Stato.
Qui nel 1846 ebbe tra le sue allieve Caterina Volpicelli, che in quel momento aveva sette anni e che il 26 aprile 2009 sarà canonizzata in piazza S. Pietro da papa Benedetto XVI; essendo stato accertato dal Vaticano un suo miracolo, sarà definita dal papa degna di essere posta nell’elenco dei santi. L’incontro nel 1846 e alcune circostanze interessanti, sui quali torneremo tra un attimo, indussero un paio di storici di cose religiose a rivolgere la loro attenzione su Giovanni Gallo.
Nessuno di questi storici però poteva cogliere un aspetto singolare e drammatico: in quegli stessi anni l’Istituto di San Marcellino fu trasformato – udite, udite! – in Secondo Educandato Regina Isabella Borbone, cioè fu legato alla parte avversaria dei Gallo nella causa sui canoni di Frattamaggiore. Dunque, Giovanni era costretto a insegnare a casa di chi in sede giudiziaria si batteva per sottrargli il grosso del patrimonio di famiglia. Ecco un’altra ragione del suo «volto dimesso».
La storia è questa. Prima dell’anno Mille, in quel lembo di territorio napoletano esistevano il monastero di San Marcellino e San Pietro e quello di San Festo e San Desiderio. I due conventi furono demoliti intorno alla prima metà del Cinquecento. Nel 1566 si fusero nel complesso dei Santi Marcellino e Festo, con la finalità di dare accoglienza alle monache rimaste prive di dimora. Per applicare le regole imposte dal Concilio di Trento il chiostro e il dormitorio furono trasformati radicalmente. Nel 1808, con l’arrivo dei Bonaparte, il convento fu soppresso e le monache benedettine furono trasferite nella chiesa di San Gregorio Armeno. Al suo posto fu istituito il Primo Educandato femminile di San Marcellino. Questo nel 1829 ebbe un nuovo ordinamento, cominciò a godere di consistenti finanziamenti pubblici e prese il nome di Secondo Reale Educandato Regina Isabella di Borbone.
Ogni mattina per arrivarci, Giovanni doveva passare in una strada molto brutta e sporca, come raccontava Matilde Serao: «Vi è un’altra strada, che dietro l’educandato di San Marcellino, conduce a Portanova, dove i Mercanti finiscono e cominciano i Lanzieri: veramente non è una strada, è un angiporto [vicolo cieco], una specie di canale nero, che passa sotto due archi e dove pare raccolta tutta la immondizia di un villaggio africano. Ivi, a un certo punto, non si può procedere oltre: il terreno è lubrico e lo stomaco spasima».
Nel marzo 1846 Caterina Volpicelli entrò nell’Educandato e prese il posto di sua sorella Clementina, tornata in famiglia. Aveva sette anni, uno meno dell’età ritenuta minima per il sacramento della eucaristia, eppure il canonico Giovanni «uomo di vasta dottrina, altrettanto rigido ed austero» la giudicò già «degna, per spiegata intelligenza delle verità cristiane e per bontà di maniere, che potesse aprire il cuore a Gesù nella Eucarestia». Un profilo di Giovanni del tutto simile è riportato nella Storia ufficiale del Collegio dei canonici: «Vir summa doctrina et pari pietate ac animi modestia preditus» [90.3].
Quando monsignor Illibato parlò con me del canonico Giovanni usò le espressioni: «vostro zio» e «il vostro parente». Sentirmi definire parente di qualcuno vissuto secoli addietro fu una cosa ricorrente durante il mio viaggio nella storia. La donna che disse «‘o munaciell ‘e ‘nu parent vuost», don Pio Bozza di Vettica Maggiore che riferendosi a Luca Antonio mi disse «ha parlato in latino il vostro parente», Illibato che definì il canonico Giovanni «il vostro parente». Così come le donne di Praiano lungo le scalinatelle ci salutavano e ci accettavano perché mia moglie Silvana e io lì avevamo «parenti». La qualifica «parente» aveva in tutti questi casi un tono di affettuosità, essendo dal loro punto di vista trascurabile la distanza temporale, ed era una sorta di autorevole certificazione della correttezza dei risultati della mia ricerca.