Ho già raccontato che S. Maria Antesaecula è la via dove da ragazzetto nel 1956 andai a fotografare lo stemma esistente in cima al portone. Nel 2009 feci ripartire proprio da lì le ricerche che hanno consentito questo racconto. O meglio le feci ripartire dalla vicina parrocchia di S. Maria dei Vergini. Trascorrevo molte ore per leggere e fotografare pagine dei registri relativi alle nascite, ai defunti, ai matrimoni. Tornavo a casa, interpretavo e sistemavo le carte, mi accorgevo che potevo risalire più indietro nel tempo o dovevo cercare altri riscontri. Così tornavo in quella parrocchia e, con la paziente disponibilità del parroco don Michele Esposito e dei suoi collaboratori, ci passavo altre ore.
Nel risalire indietro, dovetti fermarmi al 1824 quando nella parrocchia fu battezzato Pietro figlio di Matteo. Ma più indietro ancora si perdevano le tracce della famiglia Gallo e non si sapeva da dove mai venisse. Ero perso. A salvarmi fu l’archivio notarile di Napoli in via San Paolo, perché nel rogito del 1815 del notaio d’Acampora relativo all’acquisto dell’immobile di S. Maria Antesaecula lessi che acquirente era «il signor Matteo Gallo figlio del signor Michelangelo proprietario, domiciliato strada Sedile di Porto numero novantadue». Potei così spostarmi a Sedile di Porto, e il resto lo sapete.
Una volta, a inizio settembre 2009, arrivai alla parrocchia dei Vergini, in via dei Vergini 45, alle tre e mezza del pomeriggio, troppo presto perché il sacrestano Enzo avrebbe aperto il portone alle 17. Non sapevo come passare il tempo. Per di più piovigginava. Il bar “Vergini” dirimpetto alla chiesa, sul lato destro della strada, dietro all’ombrellone arancione, non aveva tavolini dove sedersi. Entrai, passai davanti al banco del caffè senza fermarmi perché sono goloso e cercai se da qualche parte ci fosse un po’ di pasticceria secca da accompagnare al caffè. Così feci un rapido giro nella sala interna. Non trovai nulla e non volendo prendere un caffè senza mangiare nulla, me ne uscii. Stetti dieci minuti fuori, ma continuava a piovere. Non sapevo che fare. Così rientrai, passai ancora una volta davanti al banco del caffè, rifeci il giro nella sala interna pur sapendo cosa avrei trovato o meglio cosa non avrei trovato, e me ne uscii di nuovo. Con la coda dell’occhio mi accorsi che la gente mi guardava, ma non ci detti importanza.
Poco più di un mese dopo, allo scopo di identificare l’autore di un crimine efferato, la Procura della Repubblica di Napoli dispose che il 29 ottobre fosse diffuso in tv un filmato shock preso da alcune telecamere di sicurezza e risalente a maggio dello stesso anno. Si vedeva un killer, poi riconosciuto come tal Costanzo Apice, che entrava nel bar Vergini, faceva esattamente lo stesso giro che avevo fatto io, e lo faceva non per cercare un improbabile banco di pasticceria, quanto piuttosto per accertarsi che non vi fossero compagni armati di quello che era il suo obiettivo, poi usciva senza aver consumato alcun caffè, come me, e sull’uscio del bar freddava con un paio di colpi di pistola un pregiudicato, tale Mariano Bacioterracino, che nel video appariva ignaro della sua imminente tragica fine. Quando vidi il filmato in televisione, capii gli sguardi che mi avevano seguito.
Nella parrocchia dei Vergini mi dissero che nel palazzo in via S. Maria Antesaecula 109, attiguo a quello dei Gallo al civico 112, a fine Ottocento abitava il principe De Curtis. Mi raccontarono in modo confidenziale, ma basandosi a loro dire sui registri parrocchiali, che il principe si invaghì della giovane domestica di famiglia, Anna Clemente, ma fu in ciò contrastato dai suoi genitori. Il figlio che nacque dalla loro relazione il 15 febbraio 1898 fu chiamato Antonio, non poté essere riconosciuto dal padre se non alla morte dei severi nonni, quand’era ormai grandicello. Era Totò, il grande attore comico, la cui biografia ufficiale è invece confusa.
Naturalmente, quasi ogni volta, uscendo dalla chiesa dei Vergini andavo a rimirare il palazzo di S. Maria Antesaecula 112 [81.1] e, attraverso il cancello, il cortile interno al fabbricato, e mi intrattenevo a fantasticare su come si poteva svolgere la vita duecento anni prima. Oggi sul cortile interno si affacciano alcuni “bassi”. È pressoché certo che il cortile fosse l’antico «giardinetto» citato nel rogito e che i locali degli odierni bassi fossero la «rimessa» e la «grotta», nelle quali Matteo conservava rispettivamente la carrozza e i cavalli.
Come sempre, anche questa volta un paio di passanti, anzi non proprio passanti perché sembrava che non avessero altro da fare che aspettare me, mi chiesero cosa cercavo. Risposi che cercavo riscontri a ricordi antichi. Prontamente, tirarono fuori il prodotto che secondo loro faceva alla bisogna, cioè un vecchio traballante ma con ottima memoria. Mentre stavo per obiettare che non era abbastanza antico, si aprì il cancello elettrico e io istintivamente feci un paio di passi in avanti per entrare… a casa mia. Ma fui prontamente rispedito fuori da chi stava uscendo. Docilmente mi allontanai, con il disappunto dei passanti, cioè dei due astanti, che non erano riusciti a vendermi il vecchio.
Uno dei pagamenti per l’acquisto dell’immobile in S. Maria Antesaecula Matteo lo fece il 28 agosto 1815 [81.2] sul conto che teneva presso il Banco delle Due Sicilie. Lo trovai il 24 febbraio 2010 nella preziosa documentazione dell’Archivio storico dell’Istituto Banco di Napoli – Fondazione, in via dei Tribunali 213, e lo trovai grazie al cortese aiuto del suo direttore Edoardo Nappi. Poche pagine prima, era stata registrata un’altra operazione bancaria su un diverso conto, questa volta effettuata da Michelangelo il 19 agosto 1815 [81.3]. Rimasi sorpreso ed emozionato a vedere le due firme, per una ragione inimmaginabile: sbrilluccicavano, sia una di Matteo [81.4], sia una di Michelangelo [81.5]. Ciascuna firma, apposta in calce a una pagina manoscritta come tante altre, emetteva bagliori, lampi di luce! Il resto della pagina no. Sembravano ammiccamenti compiaciuti inviati dall’aldilà. Non riuscivo a capirne l’origine. Fu il direttore a spiegarmela con cortese pazienza. Anticamente, dopo aver scritto un testo con penna e inchiostro, per asciugare la pagina ed evitare che si formassero macchie, si cospargeva il foglio di cenere, poi lo si sgrullava. Infine, i gentiluomini di maggior riguardo, condizione sociale e vanità, firmavano e cospargevano il foglio questa volta con polvere d’argento e dopo qualche secondo lo sgrullavano. La conseguenza di ciò era che piccole pagliuzze d’argento restavano incastonate nell’inchiostro ancora fluido e al tempo stesso lo asciugavano, cosicché a distanza di duecento anni le firme ancora specchiano la luce ed emanano una magica luminescenza. Le filmai.
Pensai che Crescenzo con il suo modo parsimonioso di vivere nel Settecento uno spreco del genere non l’avrebbe mai fatto. Chissà.
Il direttore dell’Archivio storico mi spiegò che le contabili delle operazioni, effettuate nel corso dei secoli presso le varie banche confluite nel Banco di Napoli, erano conservate impilate in un ferro verticale, una sorta di lungo chiodo, del tutto similmente alle ordinazioni sul banco di un pizzaiolo, ovvero a un gigantesco kebab.