cap 66

Michelangelo, nato come sappiamo nel 1739 e battezzato nella chiesa di Tutti i Santi a Sant’Antonio Abate, poco distante dalle pendici della collina di Capodimonte, era praticamente coevo della Reggia, era cresciuto di pari passo con essa. Divenuto agiato, si invaghì della casa rurale in strada Ponti Rossi e del podere circostante, grande trenta moggia a corpo e non a misura, poco meno di cinque ettari, più di una volta e mezza la masseria di Posillipo comprata da Crescenzo. La masseria di Capodimonte era stata costruita nel 1745 e infatti figurava già nella mappa di Carafa e Carletti del 1775 al particolare 550 del foglio 4 [66.1]. Come riferì Venditti, una lapide all’interno del muro di cinta del parco recitava: “Sulla via dei Ponti Rossi era la villa costruita da Horace\Valpole nel 1745”.
Scendendo dal bosco verso la città, si percorreva la vecchia strada Ponti Rossi che, a differenza di quella odierna costruita nell’Ottocento [66.2][66.3], era una stradina ai margini del bosco, sterrata, diritta, molto ombreggiata soprattutto sul lato sinistro, quello opposto al mare, quindi fresca, e con il panorama della città di Napoli e del golfo che spuntava sul lato destro tra gli alberi declinanti. A un certo punto, dopo aver percorso qualche centinaio di metri e aver superato una prima traversa a destra, si incontrava un secondo vialetto, sempre a destra, lungo il quale dopo alcune decine di metri si trovava la masseria, sul fianco destro, in pendìo. L’ambiente era incontaminato, incantevole.
La masseria in origine era di proprietà di una anziana signora, donna Isabella Rivelli. Questa non aveva figli, aveva due sorelle, Eleonora suora e Maddalena sposata con figli. Isabella morì nel 1756, dunque undici anni dopo la costruzione della masseria. Nel testamento, aperto il 17 maggio di quell’anno con atto notaio Pietro Emilio Marinelli di Napoli, non sappiamo in virtù di quali legami destinò la nuda proprietà della masseria a donna Anna Andolfi da poco sposata con don Giuseppe Madia e al momento senza figli, e lasciò l’usufrutto vita natural durante a suor Eleonora Rivelli, la quale aveva già portato questo reddito in dote al proprio convento; con l’ulteriore condizione testamentaria che – se Anna Andolfi in seguito non avesse avuto figli – alla sua morte la nuda proprietà sarebbe andata agli eredi di Maddalena Rivelli. Ma Anna Andolfi ebbe poi da Giuseppe Madia cinque figli, tre maschi (Gennaro, Tomaso e Gio.Batta) e due femmine (Maddalena e Francesca); inoltre suor Eleonora Rivelli qualche anno dopo morì, così che verso la fine del Settecento in capo ad Anna Andolfi e ai figli si erano ormai consolidate la proprietà e la disponibilità della masseria «con tutte le fabbriche in quella esistenti, così nobili che rurali, cappella ed altro, una con tutti li fusti, tinacci ed altri comodi rurali, e di vendemmia ivi esistenti, sita e posta all’anticaglia di S. Giuliano, seu Ponti-Rossi».
Nel Cinquecento e nel Seicento, la città di Napoli era ancora ben contenuta dalla cinta muraria e, data la povertà dei suoli e l’accidentata orografia dei luoghi, le colline circostanti erano per lo più coperte da vegetazione spontanea, mentre le zone umide erano molto fertili e quindi presentavano insediamenti vegetali molto ricchi. In alcuni villaggi, come Capodimonte e il Vomero, esistevano già nel Seicento terre messe a coltura da privati che però avevano una scarsa incidenza sul paesaggio naturale. La presenza dei “casini di delizia” già configurava una struttura abitativa in via di consolidamento. Scriveva Celano nel 1692 nel suo saggio “Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli”: sulla collina di Capodimonte «vi si veggono molti e molti deliziosissimi casini e giardini con vedute, per così dire, di terrestri paradisi». Le delizie non erano banalmente i sapori della tavola, erano le cosiddette Delizie Regie, cioè alberi da frutto presenti nel cuneo sud-ovest del bosco di Capodimonte.
Nella relazione del 1815 del signor Di Lauro [66.4], l’esperto di campagna, nel podere a Ponti Rossi si contavano poco meno di milleduecento piante e alberi: 727 viti piccole e grosse, 178 fichi, 21 meli, 22 noci, 18 prugni, 53 peschi, 35 gelsi, 20 viti della pergola, 8 ceppe di granata (melograni), 12 ceppe di nocelle, 15 olmi, 63 pioppi, 2 amareni, 3 agrumi, 1 melo cotogna, 1 ceppa di lauro, 1 legnosanto (kaki).
Per Michelangelo l’investimento fu molto impegnativo e anche redditizio. L’atto di compravendita fu curato il 20 dicembre 1793 dal Notaio Giuseppe Farinelli di Napoli, come risulta da un estratto redatto nel 1804 dal sottonotaro conservatore della scrittura [66.5]. Il prezzo riconosciuto ad Anna Andolfi e a Gennaro, Tomaso e Gio.Batta Madia fu fissato pari a 5.975 ducati, imputati quanto a 785 ai fabbricati e quanto a 5.190 alle cosiddette migliorie, cioè agli arredi, ai beni mobili e soprattutto alle delizie del podere. Il prezzo medio unitario, tra case e podere, fu pari a 200 ducati per moggia, ovvero 590 ducati per ettaro. Per un confronto, ricordiamoci che il prezzo unitario della masseria di Posillipo venti anni prima era stato pari a 250 ducati per ettaro.
Michelangelo versò [66.6] – forse a titolo di caparra confirmatoria – il 5% circa (319 ducati) prima del rogito mediante due polizze, equivalenti a moderni assegni bancari, del Banco di S. Eligio, mentre contestualmente al rogito versò la somma residua (5.656 ducati) mediante altre tre polizze sempre del Banco di S. Eligio: una prima di 1.031 ducati «liberi ed espliciti»; una seconda polizza di 3.000 ducati, condizionati a essere impiegati nel territorio e nel distretto di Napoli con il consenso di Michelangelo «per una sola volta tantum, e tutte le altre volte che si dovevano detti ducati tremila riimpiegare si avesse dovuto cerzionare [cioè informare] giuridicamente esso don Michelangelo, e li suoi eredi, e successori affinché avessero avuto scienza della persona con cui si impiegavano, la quale compra avesse dovuto restare così per cautela dell’evizione di detta masseria» (di questi tremila, 600 erano promessi a Maddalena Madia e altri 600 costituiti in dote all’altra figlia Francesca); una terza e ultima di 1.625 ducati condizionati a che fossero girati a una serie di creditori dei venditori; «coll’ipoteca generale e speciale sopra diversi effetti e beni di detti Andolfi e Madia».
La rendita era di 323 ducati annui, di cui 150 ducati per censo perché la masseria era stata data in censo dapprima a tale Filippo Albrizio e poi, alla morte, ai suoi eredi. Fin dal Medioevo il censo era il canone in danaro, derrate o prestazioni, che i contadini dovevano al signore in riconoscimento del suo diritto di proprietà. Il rendimento annuo lordo dell’investimento era dunque pari a ben il 5,4%, superiore al 4,6% della masseria di Posillipo, la quale era costata di più. Se ben ricordate, ho raccontato che Crescenzo nell’acquisto di Posillipo stranamente non aveva trattato; probabilmente comprò a un prezzo un po’ troppo alto.
Perché la masseria fosse venduta a Michelangelo, si dovette ottenere una previa Dispensa Regale; i Borbone dovettero esprimere formalmente il proprio gradimento su chi acquistava. Ciò dimostra che: Michelangelo la comprò solo dopo l’urbanizzazione conseguente la costruzione e l’inaugurazione della Reggia; in altri termini non fece un affare speculativo; ebbe il gradimento formale dei Borbone, i quali certamente istruirono la questione, raccolsero informazioni su quest’uomo benestante, non nobile, estraneo alla cerchia delle famiglie aristocratiche napoletane.
Le prime volte che saliva dalla città e arrivava a Capodimonte, Michelangelo restava a lungo in silenzio, da solo, con un orgoglio sconfinato per le vette conquistate, a rimirare dall’alto il panorama della città e del mare, con il Vesuvio proprio di fronte. All’epoca non esistevano i grattacieli del Centro Direzionale che oggi, per chi guarda da Capodimonte, si stagliano dinanzi al Vesuvio, deturpando il panorama [66.7].

About Riccardo Gallo
Riccardo Gallo (Roma, 23 settembre 1943) è un ingegnere, economista e docente italiano. Professore alla Sapienza, ha svolto compiti di risanamento del sistema produttivo italiano in ambiti governativi, finanziari, aziendali, riversando e incrociando le competenze acquisite. È stato definito il bastian contrario sia del management pubblico che del privatismo arrogante, estremista di centro. Ha collaborato con Il Sole 24 Ore. Oggi è opinionista de L’Espresso.
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