cap 67

La proprietà delle due masserie, quella di Posillipo e quella di Capodimonte, i due fondachi e la casa a Sedile di Porto, la loro ubicazione, il valore, il livello del canone di enfiteusi o la rendita, erano tutti coerenti con un processo di maturazione sociale che in quegli anni portò nel Regno di Napoli alla piena affermazione di una borghesia proprietaria.
Nel 1789 a Parigi iniziò la Rivoluzione francese e proseguì a ritmi frenetici. Il 5 maggio ci fu la convocazione degli Stati generali. Con questo termine si intendevano tre ceti o classi sociali: la nobiltà, il clero, il terzo stato. Quest’ultimo costituiva il 98% della popolazione ed era la classe maggiormente tassata, in quanto anche la tradizione monarchica francese prevedeva consistenti privilegi per la nobiltà e il clero. Il 17 giugno, il terzo stato si autodefinì “Assemblea nazionale”; due giorni dopo, il clero vi confluì. Il 23 giugno il re minacciò l’Assemblea; due giorni dopo, 47 nobili aderirono all’Assemblea. Il 7 luglio fu formato un comitato per elaborare la costituzione; gran parte dell’esercito si spostò a favore dell’Assemblea. Il 12 luglio la popolazione di Parigi insorse. Il 14 luglio fu presa la Bastiglia.
A Napoli, subito dopo i fatti parigini e nell’ultimo decennio del Settecento, sotto l’influenza della Rivoluzione francese, numerosi intellettuali italiani, in particolare meridionali, promossero iniziative convergenti di politica riformatrice, pur partendo da posizioni fortemente diversificate. Si autodefinirono “giacobini meridionali”.
La regina Maria Carolina aveva sottratto il Regno all’influenza spagnola e l’aveva spostato nell’orbita inglese attraverso John Acton. Dopo la caduta della monarchia francese e la morte per ghigliottina dei reali di Francia, la politica di Ferdinando IV e di sua moglie assunse un chiaro orientamento antifrancese e antigiacobino. Il Regno di Napoli aderì alla Prima coalizione contro Parigi. Cominciarono le prime, seppur blande, repressioni sul fronte interno contro le personalità sospettate di simpatie giacobine.
I rivoluzionari intanto dilagavano in tutta Italia; furono proclamate alcune repubbliche filofrancesi e giacobine: la Repubblica ligure e la Repubblica cisalpina nel 1797, la Repubblica Romana nel 1798. Nonostante l’appoggio della flotta inglese al Regno di Napoli e di Sicilia, dopo un iniziale successo a Roma e dopo alterne vicende, Ferdinando IV fuggì con tutta la famiglia reale in Sicilia. A Napoli rimase solo il conte Francesco Pignatelli con l’incarico di Vicario generale; il quale però il 12 gennaio 1799 fu costretto a una pesante resa con i francesi. Dopo una settimana, i rivoltosi si impadronirono di Castel S. Elmo. Il 23 gennaio fu proclamata la Repubblica napoletana. Nacque il cosiddetto Governo provvisorio, composto da intellettuali giacobini meridionali, sopranominati patrioti, da Carlo Lauberg a Ignazio Ciaia, a Francesco Mario Pagano , Melchiorre Delfico, Domenico Cirillo, Pasquale Baffi, Cesare Paribelli. Tra i protagonisti di quella stagione esordì anche il duca d’Ascoli Vincenzo Marulli, uno tra i più combattivi deputati di Città, poi membro di Municipalità.
Nel volgere di pochi mesi, questi intellettuali si ritrovarono a fare una rivoluzione che non aveva nulla a che vedere con la loro storia personale, anzi rappresentò un tradimento della loro ispirazione che in origine era stata solo riformatrice. Galasso racconta che per molti di loro questa conclusione fosse un vero e proprio dramma. Quel tentativo di repubblica durò sei mesi, fino a giugno del 1799, quando i Borbone ripresero il controllo della città, processarono e condannarono a morte i repubblicani. Secondo i dati ufficiali indicati da Cuoco, le vittime furono 119, ma ne furono uccisi molti altri dai “lazzaroni”, cioè dalla plebaglia sobillata dai Borbone e scesa in strada a fare giustizia.
A partecipare alla Repubblica napoletana, anzi a far parte del gruppo dirigente del giacobinismo napoletano, oltre che gli intellettuali, furono chiamati molti personaggi della borghesia possidente e mercantile, spesso aderenti alla massoneria. Denominatore comune, cemento unitario della borghesia era la proprietà di beni immobiliari e fondiari.
Le ricerche di storia hanno dimostrato che le famiglie alle quali appartenevano questi personaggi erano solite concentrare i loro patrimoni nelle mani di un solo membro, perché ritenevano che questo fosse il modo migliore per accrescere o quanto meno per salvare il proprio potere economico, e soprattutto perché così faceva la nobiltà, che per la borghesia era l’esempio sociale da copiare. Gli investimenti di questi borghesi erano immobiliari, sia urbani che rurali, oppure finanziari, come i prestiti fruttiferi a privati o l’acquisto di rendite pubbliche, in altre parole erano quelli tradizionali della nobiltà. Secondo Petraccone, più che dagli intellettuali la rivoluzione a Napoli fu fatta da una borghesia professionale, possidente e mercantile.
Quella di Napoli fu definita una “rivoluzione passiva”, nel senso che come si direbbe oggi fu top-down, non bottom-up. Apparve subito chiaro che i cosiddetti “patrioti” non avevano competenze sufficienti e che, perciò, dovevano assolutamente fare alleanze giuste con le classi sociali forti. Fin dal Seicento, oltre agli ecclesiastici e alla plebe, i popoli (cioè le classi sociali) erano tre: gli aristocratici, le “persone stimate di tribunali”, il “popolo delle mercature e de i commercij”. Del tutto coerentemente, per la scelta delle alleanze Cuoco proponeva: la «classe del foro porterebbe con sé la quinta parte (20%) della popolazione; i nobili si crederanno meno offesi, quando si vedranno non del tutto obliati; e i negozianti, finora disprezzati da’ nobili, saranno superbi di un onore che li eguaglia ai loro rivali, e può la nazione sperar da loro aiuti grandissimi ne’ suoi bisogni». È bene anche rammentare che i produttori di seta di Lione avevano rappresentato una grossa forza nel capitalismo francese e una larga componente dell’elettorato di Napoleone; cosicché i giacobini meridionali avevano creduto che questo modello potesse essere replicato a Napoli.
Per questa e per altre ragioni, l’aspettativa era che l’appoggio dei negozianti di Napoli sarebbe stato di grande peso. Sarebbero stati utili alla rivoluzione anche molti ricchi proprietari delle province, «i quali [potevano] colà ciò che [potevano] i negozianti in Napoli e [avrebbero potuto] dare al governo quei lumi che non [aveva] e non [poteva] avere altrimenti sulle medesime». Per questa ragione si cercò di ingrossare le fila del gruppo dirigente giacobino con borghesi proprietari provenienti dalle province del Regno. Alla fine i napoletani veri e propri costituivano un’estrema minoranza. Sempre per questa ragione, nelle liti sulle terre tra baroni e comunità nelle province, il governo provvisorio favorì le comunità e quindi il dilagare di borghesi proprietari. Molti proprietari divennero perciò giacobini meridionali.
Nel Settecento, essere borghese significava godere di privilegi ormai calanti perché era in corso un processo di sfaldamento e frazionamento dei gruppi interni alla borghesia stessa. Il più numeroso era il gruppo degli artigiani, dei bottegai, delle innumerevoli piccole attività, più o meno indipendenti. Gli artigiani e i commercianti vivevano innanzitutto del proprio lavoro manuale; davano ordini al proprio personale, ma eseguivano loro stessi una parte del lavoro. Questa condizione li distingueva nettamente dagli industriali e più in generale dagli uomini di affari. Fare un conteggio aggregando gli uni agli altri era perciò sbagliato perché ipotizzava un insieme privo di un vero collante, senza una coscienza comune di classe sociale, a sentire Bergier.
In definitiva, Giuseppe e Michelangelo non erano candidati ideali a ingrossare le fila dei rivoluzionari. Possedevano sì una discreta proprietà, messa a reddito abbastanza bene e venivano da fuori Napoli; Michelangelo era sì il membro della famiglia nelle cui mani si concentrava il patrimonio; era anche vero che, pur non essendo intellettuali, né giacobini, né repubblicani, né massoni, nessun rivoluzionario pretendeva che i due fratelli lo fossero; bastava che fossero mercanti, proprietari, borghesi. Ma Giuseppe e Michelangelo erano due semplici negozianti (oltretutto nel 1799, quando viveva prestando danaro al 6%, il primo era ormai solo un ex negoziante), figli di un (pur apprezzato) artigiano (magnifico, maestro), poi riconosciuto “pubblico mercadante”. Nelle loro scelte poi prevalse il criterio dell’appartenenza al quartiere. All’epoca a Napoli il comportamento dei singoli non era basato su un’opinione liberamente maturata da ciascun individuo, veniva piuttosto deciso in gruppo e il gruppo era formato da comunità di cittadini omogenei non solo per origine, lavoro, proprietà, evoluzione culturale, ma anche quartiere di residenza. Così come quando a metà Settecento Crescenzo e Carmina andarono ad abitare nei pressi di S. Maria La Scala, dove vivevano altri amalfitani.
Un esempio calzante viene da una disputa a proposito del Vicario generale in cui, a differenza dei rivoluzionari, un atteggiamento prudente fu assunto dagli abitanti dei quartieri Conceria, Molo Piccolo, Mercato e Sant’Eligio. Cioè, negli ultimi due casi, appunto dalle comunità cui appartenevano i Gallo.
Per tutte queste ragioni insieme, nella Repubblica napoletana del 1799, a torto o a ragione, il cuore di Giuseppe e Michelangelo continuò a battere cattolico e borbonico. Sotto il profilo storico e sociale, la questione centrale fu che i due fratelli Gallo non si trovarono in minoranza, anzi. La società napoletana restò in larga maggioranza contraria ai patrioti, contro i repubblicani rivoluzionari; proprio per questo la Repubblica durò meno di sei mesi. Il Meridione a fine Settecento non si era ancora rinnovato, non aveva progredito sulla via della modernità quanto i giacobini meridionali magari stimassero o, per lo meno, sperassero.
Con il ritorno dei Borbone dalla Sicilia, nessun componente della famiglia Gallo fu condannato a morte e nemmeno processato.

About Riccardo Gallo
Riccardo Gallo (Roma, 23 settembre 1943) è un ingegnere, economista e docente italiano. Professore alla Sapienza, ha svolto compiti di risanamento del sistema produttivo italiano in ambiti governativi, finanziari, aziendali, riversando e incrociando le competenze acquisite. È stato definito il bastian contrario sia del management pubblico che del privatismo arrogante, estremista di centro. Ha collaborato con Il Sole 24 Ore. Oggi è opinionista de L’Espresso.
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