cap 65

Nel 1793, a quasi 55 anni, alla stessa età in cui suo padre Crescenzo aveva aperto il negozio a Sedile di Porto, Michelangelo fece un investimento immobiliare molto importante, comprò una seconda masseria, a poco più di un chilometro e mezzo di distanza dalla Reggia, alla Strada dei Ponti Rossi, una via che costeggiava il bosco di Capodimonte, rigogliosissimo.
Il confronto tra le due scelte di investimento, cioè il negozio di seta e la masseria a Capodimonte, fa riflettere. Il declino industriale e commerciale dell’attività della seta lasciò spazio a un’embrionale fase post-industriale; nel mix economico il reddito d’impresa iniziò a lasciare spazio alla rendita.
Il bosco di Capodimonte era rigogliosissimo perché nel corso dei secoli l’acqua era stata sempre abbondante, innanzitutto per ricchezza naturale ma anche perché, prima dell’acquedotto nuovo costruito nel 1639 dal patrizio Cesare Carmignani e dal matematico Alessandro Ciminelli, di lì passava un ramo del vecchio acquedotto romano, ormai da tempo inefficiente, un vero e proprio colabrodo. L’acquedotto romano attraversava Forino, San Severino, Lanzara, Sarno e Palma, e di là un ramo andava a Nola e a Pompei, un altro ramo a Casalnuovo e ad Afragola dove questo secondo ramo si sdoppiava ancora una volta e portava le sue acque fino ad Atella; mentre il ramo principale continuava per San Pietro a Patierno, per la Cupa di Capodichino e passava su per i Ponti Rossi o Rotti girava ed entrava a Napoli dalla parte opposta e in un unico tronco andava a Pozzuoli. I Ponti Rossi, detti anche Ponti Rotti, raffigurati a inizio Ottocento dal pittore Lancelot Théodore Turpin de Crissé, davano il nome alla strada ed erano archi semidistrutti di quell’acquedotto, fabbricato in piccoli mattoni rossi, alcuni ancora oggi esistenti, all’incrocio tra questa e la odierna via Nicolini, che porta a piazza Carlo III [65.1]. A parte il traffico, dopo più di duecento anni i Ponti Rossi non sono cambiati quasi per niente  fu Carlo di Borbone nel 1738, tre anni dopo essere divenuto re di Napoli e di Sicilia. In un primo tempo, Carlo aveva avuto l’idea di far costruire un casino di caccia sulla collina di Capodimonte e per questo aveva commissionato all’architetto Sanfelice un progetto di bosco  che fosse autonomo dal palazzo e dal belvedere, rivolto verso la campagna retrostante, e che valorizzasse la ricchezza della fauna che vi albergava. Insomma una riserva di caccia  al limite della grande città. Solo in seguito Carlo cambiò idea e decise di costruire un palazzo capace di ospitare le collezioni d’arte che gli aveva donato la madre Elisabetta.
Il progetto della Reggia e il relativo cantiere furono affidati ad Angelo Caratale, Giovanni Antonio Medrano e Antonio Canevari, freschi reduci dalla realizzazione del teatro San Carlo. I lavori cominciarono il 9 settembre del 1738, ma proseguirono a rilento per l’enorme difficoltà nel trasportare il piperno scavato nelle cave di Pianura. Furono ultimati solo vent’anni dopo, nel 1758, appena in tempo dunque prima che Carlo andasse a fare il re di Spagna. Nel 1759 la Reggia fu aperta e la collezione Farnese fu sistemata, con Elisabetta Farnese ancora in vita. L’anno seguente, Ferdinando IV, appena succeduto al padre Carlo III, affidò all’architetto Fuga l’ampliamento della Reggia e la cura del parco. Nel 1780 ci andò in visita Antonio Canova.
L’edificazione della Reggia portò a un’urbanizzazione dell’area, fino a quel momento innervata da percorsi irregolari di campagna che si inerpicavano lungo il ripido pendio, intorno all’antico convento di S. Efremo, e collegavano tra loro diverse ville, case gentilizie e masserie rurali. Agli occhi dei rispettivi proprietari (famiglie Capasso, Lieto, Marzillo, Murria, Sagnotti, Verde), il valore del patrimonio era destinato in prospettiva a crescere sempre di più. Il problema è che nella vita si tende sempre a ragionare come se non potessero avvenire catastrofi, come se le guerre non potessero scoppiare da un momento all’altro. Ma procediamo con ordine.
Pur realizzando in questo modo un polo visivo di grande importanza, perché la maestosa mole del palazzo incombeva su Napoli dall’alto di una collina ancora intatta, tuttavia il governo borbonico non si preoccupò di risolvere la questione di un adeguato collegamento della zona con la struttura urbana della città. Lo scrittore Winckelmann, in visita al Museo di Capodimonte nel 1758, scrisse: «Si arriva ad esso dopo aver superata una salita erta e scoscesa, con un palmo di lingua da fuori, e per questo motivo i paesani non se ne pigliano tanto fastidio». La salita «erta e scoscesa» era la strada dei Cristallini o del Crocifisso, cioè l’attuale Salita Capodimonte [65.2], detta dal popolo “la montagna spaccata”, all’epoca unica via d’accesso al sito, antico alveo naturale scavato tra pareti tufacee e probabilmente ampliato dalla mano dell’uomo. Insomma il dislivello tra collina di Capodimonte e città costituiva una barriera architettonica naturale che rendeva l’area della Reggia elitaria, con conseguenze psicologiche e politiche tra la gente fortemente negative.
Questo carattere d’isolamento del Palazzo rispetto alla città, fu sottolineato in tutte le guide storico-artistiche della città pubblicate fra Settecento e Ottocento, e nei resoconti dei viaggiatori.

About Riccardo Gallo
Riccardo Gallo (Roma, 23 settembre 1943) è un ingegnere, economista e docente italiano. Professore alla Sapienza, ha svolto compiti di risanamento del sistema produttivo italiano in ambiti governativi, finanziari, aziendali, riversando e incrociando le competenze acquisite. È stato definito il bastian contrario sia del management pubblico che del privatismo arrogante, estremista di centro. Ha collaborato con Il Sole 24 Ore. Oggi è opinionista de L’Espresso.
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