Crescenzo non fece in tempo a godersi i 500 ducati che aveva trattenuto per sé, perché morì di lì a poco. La cerimonia funebre si svolse come quella descritta in quegli stessi anni e proprio per Napoli dal narratore Moore: «Certe persone portavano il corpo di un uomo in una bara aperta, mentre altre seguivano in una sorta di processione. Il defunto era un commerciante la cui vedova aveva dedicato la massima attenzione a vestirlo nel modo più conveniente a questa solenne occasione: aveva un abito nuovo di zecca, un cappello piumato sul capo, una trina intorno al collo, i capelli ben incipriati, un bel mazzo di fiori freschi nella mano sinistra, e la destra adagiata con eleganza sul fianco. A Napoli c’è l’usanza di portare in chiesa i defunti subito dopo la morte, vestiti con abiti da cerimonia, e i parenti più prossimi ostentano l’intensità del loro dolore attraverso lo sfarzo con cui adornano il cadavere».
Morto Crescenzo, un tarlo girava nella mia mente: qual era la fonte della sconfinata religiosità di Crescenzo? Dove nasceva e come si alimentava questa spinta che lo portò a ordinare una messa al giorno per generazioni e generazioni di eredi e che lo spinse a offrire alla Chiesa figli e nipoti? Con l’umiltà del dubbio, provai a ricordare, ragionare e a rimettere insieme una serie di elementi in gran parte già narrati.
Primo, gli antenati di Crescenzo avevano espresso il primo parroco della storia della chiesa di S. Luca a Praiano. Tra gli eredi di Pietro Nicola, fratello di suo nonno Nofrio, c’erano stati vari sacerdoti.
Secondo, Crescenzo nacque nel 1710, nella casa dove sul soffitto a volta di una stanza c’era dipinto lo stemma di famiglia, costituito da un gallo su un monte a tre picchi, con un ramoscello nel becco. Quest’ultimo era “simbolo di vigilanza cristiana”, intesa secondo il Vangelo di Marco come trepida attesa del ritorno del Signore. Crescenzo da piccolo ne aveva chiesto il significato al padre, Giuseppe gliel’aveva spiegato e lui ne era rimasto incantato. Il gallo dello stemma dei cugini di Vettica Maggiore non aveva il ramoscello nel becco.
Terzo, quando diciottenne orfano era venuto da Praiano a Napoli con il fratello Francesco Antonio, oltre a un bel gruzzolo di ducati Crescenzo aveva portato con sé poco più che la sicurezza data dal conforto della fede. Nella sua ancor giovane età, orfano di padre e madre, questa fede si rivelò per lui un elemento stabilizzante e una guida formidabile.
Quarto, è noto che fin dalla sua nascita nel 1477 l’Arte della seta ebbe un corpo normativo fatto di elementi tecnici, giuridici, religiosi, di mutua assistenza; la religiosità era un ingrediente essenziale e inseparabile.
Quinto, gli studi fatti e il praticantato erano per Crescenzo più che sufficienti nel lavoro, ma il giovanotto non aveva una cultura tanto solida da poter affrontare con mente libera il dubbio laico dell’illuminismo napoletano di inizio Settecento. Anzi, reagì a quei fermenti intellettuali irrobustendo la corazza che la fede cattolica rappresentava per lui.
Sesto, far prendere i voti nella Napoli del Settecento a una ragazza della propria famiglia era costosissimo ed era prerogativa della nobiltà. Aver assicurato un tale futuro a una figlia e a una nipote era per Crescenzo motivo di vanto, segno dell’ascesa sociale raggiunta. Una conferma che le cose stessero proprio così viene da una preziosa e prestigiosa testimonianza, scritta esattamente negli anni di cui stiamo parlando, nel 1777, dallo scrittore Henry Swinburne nella sua visita a Napoli: «Abitualmente la dote matrimoniale non è molto cospicua. Sposare una figlia per un nobile non è più dispendioso che farla far suora; infatti mille sterline non copriranno il costo delle cerimonie che segnano la sua ammissione in convento e la sua professione di fede. Per diventar suora si deve avere un vitalizio, delle rendite, ed un diritto a disporre della propria eredità nel caso in cui si raggiunga un rango elevato nel convento e si desideri arricchirlo con nuovi edifici, vasellame o paramenti liturgici».
Settimo, aver iniziato al sacerdozio due maschi, il figlio Pasquale e il nipote Giovanni, più che prova di religiosità era segno di assoluta, pressocché dispotica ed egoistica pretesa che ci fosse sempre qualcuno che ovunque si trovasse («ubique») fosse impegnato a dire una messa una volta al giorno.
Ottavo, i clienti principali di drappi di seta ricamati in oro e argento erano Casa Reale, nobiltà e Arcivescovado [58.1], come testimoniato dall’Istituto Mondragone. Dal 1703 al 1734 arcivescovo di Napoli fu il cardinale Francesco Pignatelli e dal 1734 fino al 1753, cioè più o meno negli anni del reame di Carlo di Borbone, lo fu il cardinale Giuseppe Spinelli. Scrisse Michel Guyot de Merville nel suo viaggio a Napoli nel 1721: «L’arcivescovo si adatta al genio e al temperamento della nazione, che domanda molta dolcezza e indulgenza… I napoletani sono molto devoti, ma non sono molto pii. Essi amano le chiese, le cappelle, le confraternite, i rosari, le corone… Credono facilmente ai miracoli, si vede molta gente che accorre con doni e offerte. Essi partecipano a tutte le confraternite, a tutte le discipline, a tutte le prediche e a tutte le assemblee di pietà. In una parola non si risparmiano nulla per apparire gente pia, ma tutto ciò non è che una vanità esteriore».
Non sappiamo se questa analisi si applicasse anche a Crescenzo, non sappiamo quanto il nostro fosse pio, ma il quadro complessivo degli elementi raccolti portava a ritenere che gli sarebbe stato difficile non essere governativo e cattolico molto praticante.
All’inizio di novembre 2011 andai a cercare la strada dove risulta che Crescenzo abitò negli ultimi tempi, vicino la chiesa di «S. Andrea delli Scopari». La guida tuttocitta.it riferiva di una stradina chiamata «Vico delli Scopari», diceva che stava a 400 metri da Orto del Conte, tra corso Umberto e via Marina, accanto alla prosecuzione di via Duomo, restando nell’ambito della parrocchia di S. Maria La Scala. Ma non forniva le coordinate e sulla mappa questo vico non esisteva [58.2]. Raffrontai la mappa di Tuttocittà con il particolare 40 del foglio 11 della Mappa di Carafa e Carletti [58.3]. Per chiarire il mistero, andai di persona sul posto. Gira e rigira, tutti dicevano che vico degli Scopari stava lì, proprio lì, ma nessuno sapeva dove. Alla fine, un uomo corpulento e gentile mi accompagnò dove via Duomo incrocia via Nuova Marina e mi spiegò che, quando quest’ultima via fu allargata negli anni Ottanta del Novecento, fu demolita una fila di edifici fronte mare e scomparve il vicoletto tra la quella fila di edifici e la seconda fila di costruzioni. Fu molto sintetico nella spiegazione. Con faccia arguta, gesticolando e fissandomi negli occhi per sincerarsi di essere chiaro, disse: «Anni Ottanta? non g’è più». Ancora non so come, ma non mi fu difficile capirne il senso.
Mi chiesi se quello fosse un modo di parlare napoletano moderno e coinciso, o se fosse antico. Rimasi con qualche dubbio dopo aver letto Bouchard che aveva visitato Napoli nel Seicento: «i Napoletani parlano non solamente con la lingua, ma con tutto il corpo: avanzando, indietreggiando e piegandosi come se tirassero di scherma, muovendo più spesso le braccia e le mani che la lingua, scuotendo e ruotando la testa come invasati, aprendo gli occhi come posseduti, gonfiando le narici, tirando la bocca indietro un buon mezzo piede; in breve, non proferiscono mai parola senza usare tre organi tutti insieme, cioè la gola…, il naso,… la bocca, o per meglio dire le labbra…».