Crescenzo e Carmina accrebbero e allevarono la loro famiglia, si organizzarono meglio rispetto al momento del loro arrivo a Napoli e consolidarono il radicamento nella metropoli. La loro fu una vita tutta lavoro, famiglia, chiesa, in un intreccio inestricabile fatto di territorio, affetti, religiosità, cementato dalle risorse finanziarie generate dall’attività nell’Arte della seta. Crescenzo ne era il patriarca, per certi versi perfino il despota, Carmina la regista silente, priva di ogni erudizione, ma guida autorevole, insomma un elemento di solida certezza nella coppia.
Scelsero di trasferirsi in una zona di Napoli abitata dalla gente della costa amalfitana. Questo fu non tanto un cedimento alla nostalgia della terra (o, meglio, del mare) di provenienza, quanto piuttosto una decisione meditata per serrare rapporti con gente fidata, per meglio contrastare il disordine civile ma anche morale di una metropoli che si rivelava pericolosa. Andarono a risiedere nella contrada detta Orto del Conte. È possibile tuttavia sapere com’era fatta la contrada a metà Settecento grazie ai particolari 173 e 174 del foglio 11 della Mappa di Carafa e Carletti, posseduta dall’Archivio Storico Municipale di Napoli [47.1]. Stavano a poco più di duecento metri dal Banco di S. Eligio, a meno di cento metri da quella piccola piazza che è S. Maria La Scala, a meno di ottocento metri dal Conservatorio dei Santi Filippo e Giacomo.
Anche se alcuni di questi luoghi e di questi edifici esistono ancora, la fisionomia della contrada fu completamente stravolta centotrenta anni dopo l’epoca di Crescenzo, perché un grande intervento urbanistico chiamato “Risanamento di Napoli” nel 1884 rifece la maggior parte dei quartieri storici della città, inclusi quelli di “Porto” e “Mercato”, demolì edifici talvolta anche di grande valore storico o artistico, piazze, strade, ne realizzò di nuovi, a cominciare da corso Umberto che oggi taglia e separa il Conservatorio dei Santi Filippo e Giacomo da un lato e vico Orto del Conte [47.2] e S. Maria La Scala dall’altro. L’intervento era stato ipotizzato a metà Ottocento, ma fu portato a compimento solo alle soglie del Novecento, dopo una gravissima epidemia di colera.
La chiesa di Santa Maria La Scala divenne la loro parrocchia. La “legenda” del foglio 11 della mappa, riportata nel foglio 32, alla nota 173 [47.3] precisa «Chiesa Parrocchiale di S. Ma. di Scala, fondata da’ Cittadini della Città di Scala; in oggi addetta alle Comunità degli Ortolani, Bottegari, ed altri». La chiesa era stata costruita originariamente nel 1054, quando gli abitanti di Scala avevano avviato alcuni traffici commerciali con il Ducato di Napoli; un gruppo di scalesi si era poi radicato in città, aveva ottenuto un lotto di terreno all’epoca esterno alle mura urbane, e vi aveva costruito un piccolo agglomerato urbano in aggiunta alla stessa chiesa. Quando tra il Duecento e il Quattrocento i commerci tra le due città si erano spenti, gli scalesi avevano abbandonato la chiesa. Nel Cinquecento questa era stata ricostruita e nel Seicento era divenuta sede di confraternite laiche e religiose.
Crescenzo e Carmina giunsero nella contrada contemporaneamente all’avvio di una complessa ricostruzione della chiesa e di un suo abbellimento con decorazioni del barocco settecentesco. Andarono ad abitare dietro l’angolo della chiesa e ogni giorno, passandovi davanti, Crescenzo si soffermava a seguire i lavori con interesse e si intratteneva a controllare l’avanzamento del cantiere; ne era compiaciuto, perché gli sembrava che non fosse affatto casuale la coincidenza tra il suo arrivo e quell’ammodernamento della chiesa, e perché ormai il rispetto dei tempi era diventato una sua manìa.
Nella stessa contrada Orto del Conte, nel quartiere Mercato, in via de’ Barrettari [Il termine giusto era “parrettari”, riferito alle “parrette”, cioè ai pallettoni usati nelle balestre], accanto all’antica chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, centocinquant’anni prima, aveva avuto sede un’istituzione di beneficenza, decisa nel 1582 dalla corporazione dell’Arte della seta, finalizzata a opere caritatevoli. Più esattamente, come spiegò Tescione, nel primo secolo di vita a partire dal 1477, anno di nascita della corporazione, gli associati all’Arte della seta si erano riuniti nell’ospizio dell’antica S. Maria Maggiore alla Pietrasanta, basilica paleocristiana in cima a via S. Nilo e in fondo a via de’ Tribunali. Poi, divenuti numerosi, fondarono in via dei Barrettari la propria cappella intitolata ai Santi Filippo e Giacomo. Nel 1582 crearono l’istituzione di beneficienza. Questa istituzione concedeva sussidi agli artigiani poveri, provvedeva alla sepoltura dei defunti, erogava una dote di 50 ducati a ogni figlia di setaioli indigenti, educava nel sacro timore di Dio le fanciulle rimaste orfane la cui famiglia appartenesse all’Arte della seta; fu chiamata Conservatorio dei Santi Filippo e Giacomo.
Poco dopo, secondo Galasso e Valerio, il numero delle fanciulle educande crebbe molto, sia perché l’incremento demografico della città fu elevato, sia perché si allentò l’obbligo imposto dal Concilio di Trento di osservanza della clausura, sia perché le famiglie cominciarono a utilizzare i monasteri come ricoveri per l’eccedenza femminile non destinata al matrimonio. A quel punto, i consoli dell’Arte della seta decisero l’acquisto di un’altra dimora più capiente e scelsero il palazzo del conte di Caserta presso il seggio di Nido, distante ottocento metri. Lì accanto, in via San Biagio dei Librai, fu costruita anche la nuova chiesa dei Santi Filippo e Giacomo . Il 22 febbraio 1591, con solenne processione, le «figliole della seta» ospiti del Conservatorio furono trasferite nella nuova residenza. Lo statuto del Conservatorio fu cambiato; fu stabilito tra l’altro che le fanciulle potessero entrare nella casa a un’età non inferiore a nove anni e non superiore ai quindici.
Il numero delle fanciulle iscritte salì in un primo tempo a duecento, poi crollò quando l’Arte della seta non fu più obbligata a finanziare il Conservatorio e ci si limitò a offerte volontarie («oblatismo»). Nel caso in cui, diventate adulte, le ragazze non avessero trovato marito, avrebbero professato i voti minori, vestendo l’abito religioso e rimanendo infeudate al luogo pio col titolo di maestre. Mi chiedo come potessero mai trovare marito in una organizzazione di vita quotidiana come quella. Re Filippo IV di Spagna nel 1631, come aiuto, concesse il diritto di riscuotere la tassa di un tornese sulla vendita di ogni libbra di seta, ripristinando così un contributo fisso dell’Arte della seta. Il tornese era una moneta di rame emessa dagli Aragona a Napoli alla metà del Quattrocento; fu battuta fino al 1861 ed equivaleva a un duecentesimo di ducato.
Tutto ciò portò a trasformare radicalmente la missione del Conservatorio da opera caritatevole nel Cinquecento per fanciulle indigenti a monastero nel Settecento per ragazze di famiglie abbienti o nobili, comunque finanziariamente autonome.