cap 48

Nel 1758, più o meno contemporaneamente alla ricostruzione della chiesa di S. Maria La Scala, anche la nuova chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, integrata con il Conservatorio, subì un forte rimaneggiamento, in questo caso ad opera dell’architetto Gennaro Papa, il quale anni prima era stato artefice del rifacimento barocco di altre chiese del centro di Napoli.
Crescenzo e Carmina ebbero sette figli: Giuseppe, Michelangelo, Pasquale, Marianna, Rosa Maria, Teresa, Angela, i primi a poca distanza l’uno dall’altro [48.1].
Spinta a subire il fascino del Conservatorio dei Santi Filippo e Giacomo fu Marianna, la quale fu iscritta come educanda a quel Conservatorio e poi prese i voti e vi entrò monaca. Per Crescenzo quello fu il coronamento di un sogno, una prova della grazia del Signore, che si aggiungeva alle vocazioni verificatesi negli ultimi cent’anni nel ramo di famiglia di Vettica Maggiore, il ramo cioè di Pietro Nicola, fratello di suo nonno Nofrio. Ma fu anche, e soprattutto, il riconoscimento alla sua affermazione nell’Arte della seta e al conseguente rango sociale della famiglia.
Il problema del finanziamento dei monasteri perdurava, così come le famiglie nobili continuavano a voler far monacare le figlie. I monasteri erano disposti a prendersele senza badare troppo per il sottile, magari anche violando le disposizioni severe che per la loro selezione erano state fissate dalla “Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari” dopo il Concilio di Trento.
Il problema economico consisteva nel fatto che le rendite provenienti dai beni immobili e dalla dote delle monache raramente bastavano a pareggiare le spese di gestione del monastero, nonostante a tali rendite si sommassero i ricavi per la vendita di dolci confezionati dalle stesse monache. Per questa ragione, le rette a carico delle educande venivano fissate su livelli sempre più alti; inoltre, al termine del periodo di istruzione, le educande venivano invogliate a monacarsi nel medesimo monastero. Questa era una violazione grave delle regole che i vescovi avevano fissato per tutelare la sincerità della vocazione ed evitare pressioni e condizionamenti.
Per capire poi perché le famiglie nobili monacavano le figlie, basti pensare che così facendo i nobili riuscivano a lasciare intatto il proprio patrimonio ai discendenti maschi. Addirittura spesso mandavano in monastero le figlie quando erano ancora bambine, le lasciavano a stretto e continuo contatto con le monache, così che si abituassero a quel tipo di vita.
Per capire infine perché i monasteri desiderassero ricevere ragazze appartenenti a famiglie nobili, basti immaginare il richiamo che il loro blasone esercitava nei confronti di altre figliole non nobili ma magari ben più abbienti, come lo era appunto Marianna Gallo. «Per di lei maggior mantenimento e commodo» Crescenzo le corrispondeva 36 ducati annui, come ricordò nel 1785 [48.2] nell’ambito di un atto di donazione ai figli.
Negli anni in cui Marianna entrò nel Conservatorio dei Santi Filippo e Giacomo, nei monasteri di Napoli come educande di clausura c’erano ragazze delle famiglie Blanch, Borgia, Brancaccio, Caffarelli, Capece Minutolo, Caracciolo, Carafa, Monforte, Pignatelli, Ruffo, Spinelli. Le accresciute possibilità dell’istituto consentivano di ospitare «comodamente» circa trecento ragazze.
Molte delle designate al velo erano nel pieno della salute e della gioventù, alcune di notevole bellezza. Scrisse Moore proprio in quegli anni: «C’è qualcosa nell’abito d’una monaca che rende la beltà di una giovane donna più interessante di quanto possano i più gai, i più ricchi e i più elaborati ornamenti. Certamente questo non dipende per nulla da un qualche particolare effetto o proprietà della flanella bianca e nera… Se si deve prestar fede agli antichi poeti, le giovani che sono confinate a una vita claustrale in questo paese meritano maggior compassione di quanta non ne otterrebbero se si trovassero nelle medesime condizioni in altri luoghi. Dicono che l’aria stessa di questa parte d’Italia è incompatibile con quel tipo di costituzione e con quella forma mentale, che per le monache sarebbero un bene particolarmente prezioso».
Il 3 ottobre 2011 mi concessi una giornata di visita a tutti questi posti abitati o comunque frequentati da Crescenzo e dalla sua famiglia a metà Settecento. Cominciai dalla consultazione dell’Archivio notarile in via S. Paolo, poco sopra S. Gregorio Armeno, dove sapevo che da giorni erano stati tirati fuori per me due atti dell’epoca. Poi passai per la chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, dove una pseudo-impiegata mi liquidò in un attimo perché quella mattina «teneva cché ffa». Allora andai a consultare l’Archivio di Stato, dove da giorni era pronta per me una preziosa documentazione sulla contabilità di Praiano a fine Cinquecento. Quindi, sempre camminando, andai a scoprire a poca distanza vico Orto del Conte e S. Maria La Scala. Quando facevo questi giri, ero abituato ad alzare lo sguardo, per rimirare cupole, stucchi barocchi, il cielo di Napoli, balconi di fabbricati degradati e pericolanti, ero abituato a superare il fastidio dei cumuli di spazzatura, a non raccogliere sguardi di prostitute in servizio o prostitute potenziali, cumuli e sguardi fittamente intervallati. Invece, rispondevo volentieri a chi in modo gentile, curioso e invadente mi chiedeva che stavo cercando. E io rispondevo e lo facevo per raccogliere frammenti di ricordi generosi e vecchi che però, purtroppo per me, si fermavano ad appena 40 anni prima, non a 400.
Continuai il mio giro a piedi andando al Conservatorio di S. Pietro a Maiella, in prossimità di piazza Dante, dove mi ero informato esiste un archivio sugli allievi della scuola di musica nel corso dei secoli. Ci andai nella speranza di capire se Marianna prima di prendere i voti era stata o no allieva del Conservatorio musicale dei SS. Filippo e Giacomo. Ma, giunto là, seppi che l’Archivio al momento era inaccessibile. Mi fermai a Port’Alba  a comprare su una bancarella due libricini su Napoli nel Seicento e a fine Settecento, due euro il primo, tre il secondo. Constatai che il venditore era in possesso di una cultura smisurata. Proseguii per l’intera giornata e, tornato a Roma, su www.tuttocitta.it calcolai che avevo percorso molto più di sette chilometri, senza alcuna fatica.
Il 2011 fu un altro anno molto critico per la spazzatura nelle strade di Napoli. Potei constatarlo purtroppo di persona in quella e nelle altre mie visite, durante le quali fui costretto a fare slalom tra fetidi cumuli di rifiuti e bancarelle di botteghe. Naturalmente, il pensiero corse ai tempi di Crescenzo e mi domandai quanto nel Settecento la città fosse diversa e migliore. La risposta mi venne dalla lettura di una testimonianza di Leandro Fernandéz de Moratín del 1794: «Le strade in generale sono molto sporche, oscure di notte per mancanza di illuminazione pubblica, e le più importanti occupate da banchi di venditori di pane, frutta, carne, rigattieri, ortolani e, insomma, di tutti quelli che portano fuori delle botteghe parte delle loro mercanzie per esporle meglio alla pubblica vista. Carrozzieri, carpentieri, sarti, calzolai, ramai ed altri artigiani lavorano nelle strade come a casa propria; da qui derivano, oltre al rumore insopportabile che producono, la spazzatura ed i residui delle lavorazioni che insudiciano il selciato e impediscono il passaggio anche nelle strade più larghe e frequentate…». Insomma, uguale al 2011.

About Riccardo Gallo
Riccardo Gallo (Roma, 23 settembre 1943) è un ingegnere, economista e docente italiano. Professore alla Sapienza, ha svolto compiti di risanamento del sistema produttivo italiano in ambiti governativi, finanziari, aziendali, riversando e incrociando le competenze acquisite. È stato definito il bastian contrario sia del management pubblico che del privatismo arrogante, estremista di centro. Ha collaborato con Il Sole 24 Ore. Oggi è opinionista de L’Espresso.
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