Crescenzo pose le basi del suo successo nell’Arte della seta tra il 1735 e il 1759, nei medesimi anni in cui Carlo di Borbone regnò a Napoli, e con la propria imprenditorialità corrispose alla politica di sviluppo economico-sociale adottata da quel governo. Successivamente, tra il 1760 e il 1786, Crescenzo consolidò la sua posizione di mercato, accumulò reddito, instradò i figli alla vita ed effettuò grossi investimenti. In quegli stessi anni, divenuto Carlo di Borbone re di Spagna con il titolo di Carlo III, il figlio Ferdinando IV salì sul trono di Napoli. Capo del Consiglio di Reggenza divenne quel Bernardo Tanucci che era stato prima consigliere di re Carlo e poi ministro degli Esteri.
Ci fu un intreccio obiettivamente forte tra la vita di Crescenzo e la storia dei Borbone. E ci fu non per simpatia politica o personale, nient’affatto, ma perché nella Napoli di metà Settecento non poteva andare diversamente.
Quando Carlo salì al trono nel 1734, il paese si presentava impoverito dopo due secoli di amministrazione vicereale; la nobiltà era decaduta rispetto ai livelli cui era giunta tra il Duecento sotto gli Angioini e il Quattrocento sotto gli Aragonesi; gli ecclesiastici beneficiavano di gran parte delle rendite di Stato e delle esenzioni fiscali; pezzenti a Napoli e contadini in campagna vivevano nella miseria; il sistema feudale era ancora controllato dai baroni, ai quali era assoggettato l’80 percento della popolazione; il ceto medio non era ancora una forza sociale autonoma e propulsiva, insomma mancava ancora una borghesia consapevole del proprio ruolo potenziale.
Re Carlo si presentò con una raffica di provvedimenti epocali.
Nel 1737 per sua volontà fu costruito il Real Teatro S. Carlo, raffigurato in un dipinto di Paolo De Albertis, pittore della prima metà dell’Ottocento [46.1]; fu ideato in modo che quello di Napoli fosse il teatro lirico più grande d’Italia, con una capienza di tremilatrecento spettatori, cinque ordini di palchi disposti a ferro di cavallo, più un ampio palco reale, un loggione ed un palcoscenico lungo circa trentacinque metri. Il teatro fu progettato addossato al lato nord del Palazzo Reale, col quale comunicava mediante una porta che si apriva proprio alle spalle del palco reale, in modo che il re potesse recarsi agli spettacoli senza dover scendere in strada. Nella prima stagione teatrale, 1738-39, ci fu una rappresentazione di “Le nozze di Amore e Psiche”, dieci rappresentazioni di “Demetrio”, dieci de “La Locandiera”, dieci de “La clemenza di Tito”, dieci di “Temistocle”, dodici di “Semiramide riconosciuta”, per un totale di 53 rappresentazioni. Nella stagione 1739-40 le rappresentazioni furono 46. Negli seguenti fu un crescendo ininterrotto. Si rappresentavano opere musicali e balli, sotto la guida di famosi direttori, coreografi, interpreti.
Nel 1739, come detto, fu creato il Supremo Magistrato di Commercio, il quale emanò importantissime direttive per l’attività produttiva e il mercato nel biennio 1740-41. Nello stesso 1740 fu stipulato un trattato di pace, navigazione e commercio tra il Regno di Napoli e l’Impero Ottomano. Nel 1741 fu firmato un concordato con la Chiesa e furono posti limiti allo strapotere del clero, i cui beni cominciarono a essere tassati. Fu limitato il diritto di asilo nelle chiese per ladri e assassini, i quali fino a quel momento eranto stati liberi di camparci, bere, bivaccare, addirittura ricevere donne.
Nel 1743 fu fondata la Fabbrica della Porcellana di Capodimonte.
Grazie agli scavi archeologici, nel 1748 tornò alla luce Pompei. Fra il 1738 e il 1765 si svolse la prima regolare campagna di scavo di Ercolano.
Nel 1750, Giovanni Carafa Duca di Noja promosse l’esecuzione di una moderna mappa di Napoli, poi completata nel 1775 con Niccolò Carletti e denominata “Mappa topografica della città di Napoli e de’ suoi contorni”.
Con il Real Decreto 25 febbraio 1751 fu varata la costruzione di un “generale Albergo de’ Poveri”. Realizzato a via Foria, ai piedi di Capodimonte, il complesso edilizio era stato ideato per essere molto più grande, per contenere circa ottomila poveri, mendicanti, vagabondi e oziosi di tutto il Regno che, seppur abili al lavoro, non avevano dimora e occupazione stabile. Nell’Albergo de’ Poveri gli ospiti venivano divisi in quattro categorie: uomini, donne, ragazzi e ragazze. Ai meno fortunati venivano forniti mezzi di sussistenza e veniva insegnato un mestiere. Un fenomeno imprevisto e incredibile fu che immediatamente a Napoli decuplicò il numero dei poveri. D’altra parte, scrisse Moore, «i lazzaroni… costituiscono una parte considerevole degli abitanti di Napoli… Essi ammontano all’incirca a trentamila; la maggior parte non possiede un’abitazione, ma dorme tutte le notti sotto i portici, nelle piazze, o in qualsiasi tipo di rifugio che li si offre… a rendergli possibile la sopravvivenza sono la zuppa e il pane che vengono distribuiti alle porte dei conventi. Quando si considera che trentamila esseri umani senza letto o abitazione vagano quasi nudi, in cerca di cibo, per le strade di una città molto ricca; quando pensiamo all’opportunità che costoro hanno di unirsi per misurare la loro miseria con la ricchezza degli altri, non si può fare a meno di restare stupiti di fronte alla loro mansuetudine».
Lo scopo principale della costruzione dell’Albergo de’ Poveri non era umanitario, ma rispondeva piuttosto a una politica generale degli Stati europei, i quali già da metà Seicento ritenevano che il lavoro fosse un dovere, prima ancora che un diritto dell’individuo e costruivano centri dove raccoglievano vagabondi e invalidi e li mettevano a disposizione delle industrie nascenti.
Gli interventi anticlericali del governo erano paternalistici ma si iscrivevano in un quadro favorevole alla cultura illuministica, che era stata alimentata da due grandi pensatori napoletani, affermatisi sotto il vicereame degli Asburgo d’Austria. Quello di maggior rottura con il passato fu Pietro Giannone, seguace delle idee di Cartesio e Nicolas Malebranche, il quale nel 1723 pubblicò “Dell’istoria civile del regno di Napoli”, ebbe numerosi problemi con la Chiesa per il suo contenuto, per questo fu addirittura scomunicato, fu costretto a riparare a Vienna presso la Corte asburgica. Morì a Torino nel 1748. Tutta la tradizione culturale giannoniana fu incentrata sulla difesa dello stato laico.
Il secondo grande pensatore napoletano illuminista fu Gianbattista Vico, seguace del pensiero di Cartesio, Hobbes, Gassendi, Malebranche e Leibniz, anche se i suoi autori di riferimento risalivano piuttosto alle dottrine neoplatoniche, rielaborate dalla filosofia rinascimentale, aggiornate dalle moderne concezioni scientifiche di Francesco Bacone e Galileo Galilei e del pensiero giusnaturalistico. La sua opera più famosa fu la “Scienza Nuova”, pubblicata in più edizioni poco prima e intorno al 1730. Morì a Napoli nel 1744.
La novità culturale di maggior rilievo sotto il Regno di Carlo di Borbone, a partire dal 1740, secondo Galasso fu rappresentata in primo luogo da un superamento della difesa dello stato laico di Giannone, tesi questa diventata nel frattempo una copertura di interessi conservatori; ma fu rappresentata soprattutto da una elaborazione di proposte di riforma, anche sociale, che favorirono un’affermazione borghese.
Nuovo protagonista dell’illuminismo napoletano nei venti anni del Regno di Carlo di Borbone fu Antonio Genovesi, per il quale nel 1755 fu istituita presso l’Università di Napoli la prima cattedra di economia in Europa, denominata cattedra di Commercio e di Meccanica. Genovesi tenne i corsi in italiano e non in latino.
Ovviamente il popolo, oppresso da tasse e carovita, rimase estraneo a quella ventata culturale. Nel 1741 tornò a organizzare tumulti, questa volta contro il nuovo governo borbonico.
Crescenzo avvertì l’incipiente affermazione borghese dal proprio angusto angolo visuale: si accorse che la domanda di mercato della seta aumentava, c’era crescita economica, il modello di sviluppo sociale aveva al centro le famiglie e le loro proprietà. Crescenzo invece non colse, né avrebbe apprezzato, l’anticlericalismo prima e il suo superamento riformistico dopo; veniva infatti da una tradizione familiare rigorosamente di stampo cattolico, aveva ricevuto un’educazione di questo tipo e tale rimase fino alla fine. Come vedremo tra poco, Crescenzo scelse come quartier generale della sua attività un luogo situato a poche centinaia di metri dalle aule nelle quali insegnava Antonio Genovesi.