Lunedì 8 marzo 2010 riuscii a fotografare personalmente la pagina 70 del registro con l’annotazione di don Francesco Mezzacapo. Fui capace di decifrarla solo grazie all’allenamento che per molti mesi avevo fatto su tanti documenti antichi; altrimenti sarebbe stato impossibile, perché nei quasi tre secoli che erano seguiti vi si era sovraimpresso l’inchiostro della pagina numero 69, quella affiancata a sinistra, o come si dice impropriamente “l’inchiostro si era ossidato”.
La trovai recandomi presso la parrocchia di S. Maria di Tutti i Santi, previo appuntamento per le ore 9 con il parroco, padre Lucrezio Cavalli. Partii da Roma la domenica sera. Pernottai a Napoli al Ramada, il mio solito albergo a quattro stelle vicino la Stazione Centrale, che prenotavo con booking.com. Ricordo che la mattina del lunedì, per l’ansia e l’emozione, ma anche perché mi basavo sui più lunghi tempi di percorrenza delle strade di Roma, mia città di nascita e residenza, mi svegliai troppo presto e arrivai in taxi alla parrocchia con un quarto d’ora di anticipo. Il cancello di ingresso della chiesa al numero civico 56 di via S. Antonio Abate era chiuso. La strada era ancora immobile, nonostante fossero già quasi le nove, non passava nessuno. La densità delle finestre e delle porte di vecchi palazzi e botteghe lasciava immaginare che di lì a poco la strada sarebbe stata gremita di gente. In quel momento, invece, c’era solo una porta aperta, la prima dell’edificio rosa sulla destra della chiesa; era di un negozio di abbigliamento di capi di scarsissimo valore. Impegnati a sistemare sul largo marciapiede, fin sulla strada, l’esposizione delle merci da vendere, c’erano il titolare napoletano e un suo aiutante magrebino. Forse contrariato per dover riprendere il lavoro settimanale, il magrebino cercava conforto nella musica araba che faceva uscire a tutto volume da un vecchio stereo sistemato due metri fuori dal negozio. Anche io cercavo conforto, perché le attese mi pesano sempre più. Così, per ingannare il tempo, chiesi al titolare: «Ma che musica è questa?». La mia domanda sottintendeva un filo di insofferenza, certo non verso l’etnia del suo aiutante, ma verso il comportamento sì, una critica per quel frastuono, che contrastava con il sonno del quartiere e soprattutto con la sacralità del momento che io stavo per vivere. Il titolare però non la prese male. Rispose: «E cchi ‘ussape. Nunn ‘a sape manch’isse…».
Alle 9 e un quarto il cancello della chiesa si aprì. Padre Cavalli mi sembrò un tipo cordiale e intelligente, non ricordo se fosse lombardo o emiliano, ma sicuramente non napoletano. Con una grossa chiave aprì un vecchio armadio in legno, mi mise a disposizione una serie di registri e si allontanò. Trovai facilmente quel che cercavo, aprii il registro a pagina 70, ne uscì un odore acre di polvere vecchia di trecento anni; d’altra parte chi mai avrebbe avuto interesse ad aprirlo a quella pagina in tanti anni? Feci un po’ fatica a fare una foto, perché a quell’ora nella sagrestia la poca luce veniva da un cortile interno e io non volevo né sapevo dove spostare il voluminoso registro. Ma la foto venne bene. La parte riguardante la nascita di Michele Angelo è quella nella fascia centrale della pagina [2.1], con evidenziato il cognome Gallo nel margine a sinistra.
Quando lessi l’annotazione, però, ci rimasi un po’ male perché mi sembrò che la registrazione del 1739 non contenesse nulla più di un altro documento che già possedevo. Questo altro documento era il suo estratto fedele [2.2], per fortuna non guastato dal tempo, quindi leggibile, che ventotto anni dopo, il 28 ottobre 1767, il nuovo parroco di S. Maria di Tutti i Santi compilò su richiesta della parrocchia di S. Maria La Scala, dove si sposarono Catarina e Michelangelo. L’estratto servì per preparare gli atti del matrimonio, chiamati ufficialmente “acta matrimonialia”, nel gergo “processetto”.
L’incartamento completo, così come molti altri documenti tutti per me preziosi, me lo aveva rilasciato il 22 febbraio 2010, dunque tre settimane prima del mio sopralluogo alla parrocchia di Tutti i Santi, l’ottimo efficiente e generoso Archivio Storico Diocesano di Napoli, situato a largo Donna Regina 22, diretto da monsignor Antonio Illibato. Infatti, mentre i registri relativi a battesimi e morti restavano nelle rispettive parrocchie, l’archivio degli acta matrimonialia dall’inizio del Seicento in poi era centralizzato nella Diocesi di Napoli ed era ordinato per anno e, in ordine alfabetico, per nome dello sposo, non per cognome. Potete figurarvi quanto fosse complicato cercare i matrimoni di un Gennaro o un Giuseppe o un Vincenzo, nomi tanto diffusi a Napoli!
Per le ricerche, monsignor Illibato utilizzava una sua fidata e collaudata collaboratrice, la signora Carmela Salomone, e non chiedeva alcun corrispettivo, nemmeno un rimborso spese per le fotocopie. Consentiva poi la consultazione delle carte solo agli studiosi che dimostrassero di averne bisogno per progetti di ricerca universitari. L’accesso all’Archivio restava invece precluso a terzi privati come me. Al posto mio altri sarebbero stati forse tentati di inventarsi un fittizio progetto di ricerca e presentare le credenziali di professore, come lo ero io sia pur di tutt’altra disciplina alla Sapienza, Università di Roma. Io non lo feci, sia per serietà sia perché capii che non c’era ragione per non fidarsi della brava collaboratrice di monsignor Illibato. Il quale, per contenere la complessità dell’indagine, cercava di limitarne l’arco temporale e, per questo, pretendeva una sola cosa: che il richiedente gli fornisse nome e cognome dello sposo, quello della sposa e l’anno di nascita del primo figlio, nella certezza che nei secoli passati prima ci si sposava in chiesa e dopo nove mesi esatti nasceva un figlio.
Poiché, per le ragioni che dirò, in quei giorni io ero già abbastanza ferrato sull’albero genealogico della famiglia Gallo a fine Settecento, non ebbi problemi a fornire a monsignor Illibato le indicazioni giuste sulla moglie (Catarina Masucci, figlia di Donato) e sui figli di Michelangelo. Il mio antenato diretto, Matteo, nonno di mio nonno, nato nel 1772, non era il primo dei figli di Michelangelo. Suo fratello Luca era nato nel 1769. Nel giro di poche settimane ottenni dall’Archivio storico diocesano la copia autentica del processetto matrimoniale del 1767 [2.3] e, per carpirne ogni segreto, lo feci trascrivere [2.4].
Da una seconda e più attenta lettura dell’annotazione trovata nella parrocchia di S. Maria di Tutti i Santi, la mia iniziale delusione svanì perché trovai elementi sorprendenti. Capita sempre così. Perciò, alla scuola elementare si dovrebbe insegnare ai bambini a rileggere, oltre che a leggere.
Innanzitutto, l’estratto del 1767 non era poi tanto fedele, era impreciso perché riportava come nome «Antonio Michelangelo», dunque senza virgola e con il secondo nome tutto unito. Un’altra differenza sensazionale era che nel registro dei battesimi del 1739 Crescenzo era scritto come a partire dal Medioevo e fino agli inizi del Settecento si scrivevano le parole contenenti al loro interno la consonante “n” o la “m” dopo una vocale e prima di un’altra consonante: la n o la m venivano omesse e sopra la vocale veniva posto il grafema ~, una sorta di tilde castigliana. Nel Medioevo, per risparmiare spazio o per evitare ulteriore fatica agli amanuensi, era normale nelle iscrizioni, nei manoscritti e negli incunaboli far uso di abbreviazioni. Sorsero quindi diversi segni codificati, tra cui la stessa tilde, che nasce come stilizzazione delle lettere m e n; era sovrapposta alle vocali. Per esempio: suã = suam, trẽor = tremor, ĩcursus = incursus, õnes = omnes, exũdo = exundo eccetera, ma poteva anche essere posta sopra alcune consonanti o in abbreviazioni più complesse: dña = domina.
Quindi, Crescenzo era scritto Crescẽzo, così come licenza era licẽza, don Francesco era don Frãcesco. Ancora un secolo prima, il narratore Capaccio scriveva porta di brõzo e non bronzo, stãpate e non stampate, Mõtecassino e non Montecassino, cõcessione e non concessione, cõgregationi e non congregazioni, sãto cõcilio e non santo concilio, e comunque Vĩcenzo e non Vĩcẽzo perché in una parola si ometteva una consonante, non due. La m o la n venivano omesse anche nella pronuncia, perciò nel dialetto napoletano ancora oggi si pronuncia “Vicienz” senza la n prima della c, ma con la n prima della z.
Nel registro parrocchiale del 1739, infine, Carmina Fenizia era Carmina Fenitia, con la t al posto della z. Invece, 28 anni dopo, nell’estratto di battesimo compilato nel 1767, Crescenzo e Fenizia erano già scritti come oggi, anche se Crescenzo è scritto Criscenzo con la “i”. C’era anche la firma autografa di Crescenzo in quella circostanza del 1767, era con la “e” e conteneva la “n”.
Non voglio insistere su queste piccole differenze grafiche, però tutto questo significa che nei quarant’anni che seguirono il suo arrivo a Napoli Crescenzo visse la scrittura come una delle modernizzazioni del tempo.
Non è chiaro se il primo nome Antonio fu scelto per il santo cui era dedicata la via della parrocchia (Borgo di Sant’Antonio), o in onore dell’ostetrica (Antonia Arena) o per lo zio Francesco Antonio, fratello maggiore di Crescenzo. Fatto sta che Antonio non era frequente come primo nome tra i maschi della famiglia Gallo, lo era come secondo, questo sì; e poi, in tutti i successivi atti ufficiali sottoscritti nel corso della vita non figurò mai il primo nome Antonio, sempre semplicemente Michelangelo, talvolta Michel’angiolo o Michele. Anzi, per essere più precisi, il nostro da giovane si firmerà MicheleAngelo, tutto unito, con la A maiuscola, e da vecchio Micheleangelo con la minuscola. La differenza sarà significativa, chiaro indizio di un’involuzione della personalità.