La soluzione per mantenere la proprietà di S. Maria Antesaecula fu individuata dai fratelli Gallo con l’avv. Salvati e con il notaio Alfonso de Filippo nella formula della vendita «col patto della ricompra», spesso impiegata negli ultimi secoli. Con quell’accordo, essi vendevano l’immobile ma mantenevano il diritto a ricomprarlo entro un certo termine di tempo se avessero voluto e saputo trovare una somma di danaro pari al prezzo prestabilito. La stipula dell’atto di compravendita «col patto della ricompra» fu programmata per venerdì 7 giugno 1861. I cinque giorni che la precedettero furono utilizzati per limare le clausole, ma anche per smaltire la sbornia delle feste in città per l’unità d’Italia.
Il clima di festa, montato dalle autorità, contagiò e coinvolse i napoletani, che si erano mantenuti filo-borbonici e freddi verso i rivoluzionari fino all’entrata di Garibaldi in città il 7 settembre 1860 , vigilia di Piedigrotta. Quella dell’Eroe dei due mondi fu un’entrata non armata, trionfale. Tra settembre 1860 e il 2 giugno 1861, con la perdita di ascendente dei Borbone, la popolazione imparò ad accettare l’eroe, anzi ad acclamarlo e assecondarlo, come sanno fare i napoletani.
D’altra parte c’è da dire che, indipendentemente dall’evento politico straordinario, i napoletani sono sempre in festa, così che quando Garibaldi entrò in città scambiò per tributo in suo onore un atteggiamento che invece era ordinario, usuale. Per esempio Garibaldi restò sorpreso che i napoletani, per inneggiare a lui, niente di meno componessero canzoni in suo onore! Beh, che ci fu di strano? Tutti i giorni si canta a Napoli! E poi ogni anno a inizio settembre la festa di Piedigrotta è sempre stata occasione per formidabili mangiate e fantastici fuochi d’artificio.
La cerimonia più importante fu celebrata domenica 2 giugno 1861 «nella bella Corte della Regia Università, circondata com’è da un doppio ordine di portici, l’uno all’altro sovrapposto» [94.1]. Ideata dal Segretario generale per la pubblica istruzione, la cerimonia fu pubblicizzata da un “Programma” dell’evento affisso il 28 maggio e fu realizzata sotto la guida dell’architetto Oscar Capocci in soli cinque giorni. Di fronte all’ingresso fu preparato il palco per i suonatori. Agli archi del primo ordine di portici furono appesi dipinti raffiguranti arazzi annodati con stoffa celeste su aste dorate; su campo rosso in lettere d’oro furono stampigliati i cognomi degli eroi napoletani del Risorgimento. «Il porticato superiore, nell’arco di mezzo aveva un maestoso stemma della casa di Savoja, sostenuto da un trofeo di grandi bandiere nazionali. Uno sterminato e solo pancarpo [letteralmente ogni tipo di frutto], apprestato dall’Orto Botanico, s’inerpicava e pendea, a modo antico, su tutta l’architettura. Larghe portiere bianche, dai bordi o rosso o verde, restringeano le spaziose luci degli archi sì del 1° che del 2° ordine; dal mezzo di ciascuno di quelli del 2° ordine pendea un candido lampadino di alabastro finito da ornati di bronzo dorato. Finalmente, a coronamento della cornice che ricorre sul secondo ordine medesimo, grandi medaglioni erano alternati: gli uni portavano un’argentea croce in campo rosso, sugli altri vi erano, in campo turchino, le iniziali di Viva Vittorio Emanuele…».
«Fin dalle nove del mattino del 2 giugno, la corte ed i suoi ambulacri, i vasti ambulacri superiori, la gran sala della Biblioteca erano gremiti da’ Componenti del Consiglio superiore, da’ Professori della Regia Università, da’ Direttori e Professori di tutt’i Collegi, e da’ personaggi più illustri nelle scienze nelle lettere e nelle belle arti. Quattro mila e più giovani fra gli Universitari, gli alunni de’ Collegi, e molti de’ pubblici Istituti formavano una moltitudine gentile, composta, ed in pari tempo lietissima di vedersi chiamata a festeggiare co’ suoi duci e maestri la più grande festa della nazione…».
«Il Rettore della Regia Università prof. Giuseppe de Luca, salito sugli Scalini e posta la mano all’asta della Bandiera, pronunziò le seguenti calde parole alla Gioventù: …Prendete la vostra bandiera, custoditela e difendetela religiosamente; ma siate riconoscenti al magnanimo re, in nome di cui l’Italia è risorta, e riconoscenti a colui che primo pose questa bandiera tra noi; onde sia uno e sempre concorde il vostro grido: Viva l’Italia, Viva re Vittorio Emmanuele, Viva Giuseppe Garibaldi».
Per la famiglia Gallo la settimana che seguì la festa del 2 giugno rappresentò invece una svolta vera, il momento in cui, mancati i genitori e il canonico Giovanni, dopo tante dolorose rinunce, i fratelli ponevano una diga al depauperamento, un fondo allo sprofondamento, una luce alla fine del tunnel. Ci riuscirono grazie al loro orgoglio, alla loro tenacia, ai rapporti costruiti da sé, in una società che nulla aveva più a che fare con quella di fine Settecento. Le speranze di un recupero sociale e civile di Napoli nel Regno d’Italia erano vaste. Quelle della famiglia Gallo erano perfino superiori.
Un evento improvviso e imprevisto colpì però la serenità dei Gallo. Giovedì 6 giugno 1861 [94.2] uscì l’edizione pomeridiana del Giornale Officiale di Napoli, il quotidiano che con l’Unità d’Italia aveva sostituito il Giornale del Regno delle Due Sicile. Ebbene al centro della prima pagina, in un box della sezione Notizie interne c’era scritto: «DISPACCIO UFFICIALE. Torino 6 giugno 1861. Il Conte Cavour è spirato questa mattina alle 7 ore. Firmato – MINGHETTI». Era morto il capo del primo governo dell’Italia unita. Che ne sarebbe stato del Paese, cosa dei Gallo? Valeva ancora la pena di tentare l’operazione ardita sulla casa?
Dopo una lunga discussione e una nottata agitata, a firmare dal notaio Alfonso de Filippo la mattina del 7 giugno 1861 però ci andarono tutti: Pasquale, Michele, Pietro, Caterina, Giuseppa, Tommasina, Marianna. Lungo la strada per raggiungere la sede del notaio, videro uomini intenti a leggere l’edizione mattutina del quotidiano [94.3]. C’era scritto che in quel momento, alle ore 10, si teneva un Consiglio dei ministri convocato dal re, che Sua Maestà aveva mandato a chiamare Ricasoli, per conferirgli l’incarico di governo. Contemporaneamente, si svolgevano solenni funerali nella chiesa di S. Maria degli Angeli a Torino. Insomma, era un giorno capace di cambiare la vita di molti in Italia.
Nel dettaglio del contratto, richiamato in atti successivi come vedremo, la proprietà di S. Maria Antesaecula fu descritta così: «quartino accessibile dal primo vano a destra del cortile; primo basso a destra del cortile; secondo basso in seguito; terzo basso in seguito; basso in fondo al cortile a destra della scala; sottoscala; secondo basso a sinistra del cortile; quartino a sinistra del riposo tra il primo e il secondo piano nobile; secondo piano nobile a sinistra; quartino a destra del riposo fra il secondo e terzo piano nobile; abitazione ivi a sinistra; terzo piano nobile a sinistra; e giardino con entrata dal terzo riposo della scala di detta proprietà».
Interessanti sono le differenze rispetto alla descrizione che era stata fatta nel rogito di acquisto del 1815. A quell’epoca si era parlato di «giardinetto, rimessa, grotta», adibiti a mantenere carrozza e cavalli; nel 1861 di questi ultimi non si diceva più nulla. I Gallo avevano rinunciato a una parte dei lussi nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento. Quei locali erano stati trasformati in bassi, vani di pian terreno affittabili per ricavarne un reddito. Lo stemma sul portone, invece, stava sempre lì. Quello di S. Maria Antesaecula restava pur sempre un grande e ricco palazzo, come si diceva allora un «casamento».
Ben più intensivo fu nella seconda metà dell’Ottocento a Napoli lo sfruttamento degli ex fondachi, destinati ad abitazioni umide, miserabili, fatte da un androne senza uscio sulla strada e un cortiletto, entrambi molto sudici. Mancavano aria e luce. Vi abitavano migliaia di persone, abbrutite, avvilite e mortificate dalla miseria. Le immondizie ammassate per lungo tempo emanavano un odore insopportabile. Intere famiglie dormivano promiscue su mucchi di paglia. Non esistevano servizi igienici; per i propri bisogni si andava nelle strade e nei cortili vicini. I peggiori erano i fondachi di Pendino, Porto e Mercato, le contrade dove un secolo prima Crescenzo aveva fatto il tessitore e il negoziante. Come raccontò Musella, i fondachi divennero «una specie di falansterio… Si entrava per un andito obliquo dalle cui pareti l’intonaco cascava a pezzi e scopriva la muratura, marmorizzata di placche giallognole e verdastre che puzzavano di mucido un miglio lontano. In fondo all’andito si apriva quella cloaca del cortile, quadrato o triangolare, chiuso tra le pareti altissime, come nel fondo di un pozzo dal quale il cielo non si vede se non a rischio di un torcicollo. Cinque, sei, sette ordini di balconi, in muratura, sospesi su negri mensoloni di legno tarlato dividevano il piano terreno dal tetto e accoglievano un nuvolo di donne e di bimbi schiamazzanti. Raggio di sole non penetrava mai».
Alla caduta dei Borbone, il primo e breve governo della città fu dittatoriale e garibaldino. Si limitò a confermare le opere che erano state programmate negli anni Cinquanta: lo sviluppo del quartiere di Chiaia, il taglio nel centro storico dell’attuale via Duomo, la costruzione del quartiere occidentale tra Riviera di Chiaia e corso Maria Teresa (poi detto corso Vittorio Emanuele), la sistemazione del litorale da Santa Lucia alla Litoranea (via Caracciolo), ai giardini della Villa Comunale, fino all’inizio della costa di Posillipo. Molti osservatori testimoniarono in ogni caso che il deficit nei conti del Regno salì vertiginosamente nel giro di poco tempo; tra il 1859 e il 1866, il livello della tassazione raddoppiò esattamente; le prevaricazioni, i privilegi, le angherie delle forze militari furono insopportabili.
Nei successivi quindici anni di Regno d’Italia, la giunta comunale di Napoli cadde più volte per le tensioni tra i filo-sabaudi e i nostalgici dei Borbone, ma anche per i sospetti sorti tra quei sabaudi che si integrarono a Napoli e avviarono programmi ambiziosi di risanamento del tessuto urbano e quelli invece che s’ingelosirono della popolarità che i primi acquisivano attraverso la spesa pubblica. Più volte si tornò alle urne.
Tra il 1876 e il 1878 il sindaco di Napoli, Gennaro Sambiase di Sanseverino duca di San Donato, affrontò la sistemazione della rete fognaria in quattro lotti, realizzò la Galleria del Museo, sistemò il rione Fuorigrotta, creò una banchina per il lavaggio del pesce, estese a tutta la città l’illuminazione a gas che era iniziata nel 1840, chiese al governo una linea ferroviaria Napoli-Gaeta-Roma, razionalizzò l’approvvigionamento idrico, avviò il risanamento dei fondachi, progettò di abbatterne più di un centinaio [94.4]. Fu accusato di aver aumentato troppo gli stipendi dei dipendenti comunali. Re Umberto I ingelosito per la sua popolarità lo definì un “viceré”. Altri lo chiamavano “re Pappone”. Certo la spesa pubblica aumentò ma, viste le condizioni in cui versava Napoli, c’erano poche alternative meno costose.