Uno dei capitoli del Concilio di Trento, concluso nel 1563, dunque stabilì che in ogni diocesi dovesse esserci almeno una parrocchia e che questa dovesse trascrivere i matrimoni e i battesimi in appositi registri. Sia a Praiano che a Vettica Maggiore esistevano numerose cappelle e piccole chiese medioevali, ma nessuna parrocchia. Occorreva adempiere al Concilio.
A Vettica Maggiore non c’era discussione, in quanto non c’erano alternative valide alla chiesa di S. Gennaro Martire, dove il 18 marzo 1548 era stata istituita la Confraternita del SS. Sacramento. Così, nove anni dopo la conclusione del Concilio di Trento, la chiesa di S. Gennaro Martire fu elevata a rango di parrocchia. Il 3 settembre del 1572 l’arcivescovo Carlo Montilio vi si recò in visita pastorale. La chiesa, già ampia, aveva in ogni caso bisogno di un ridisegno architettonico e di grossi lavori di riedificazione.
A Praiano la situazione era molto diversa. Anticamente la chiesa più importante era quella più piccola dedicata al santo patrono locale, S. Giovanni Battista; si trovava nella parte alta della omonima viuzza, in mezzo a una serie di case. Aveva e ha tuttora un accesso angusto, pari ad appena 5 metri di larghezza per 15 di lunghezza, fu restaurata da ultimo tra il 1985 e il 1990. La chiesetta aveva una capienza di una cinquantina di sedie, come oggi. Aveva una pianta rettangolare e una vòlta a botte. Risaliva a un’epoca tra il Mille e il Mille Cento, ancor prima che gli Svevi arrivassero a Napoli. Secondo Matteo Camera, «nella mezzana età [Medioevo] era di padronato delle famiglie patrizie amalfitane Augustariccio, Bemba, Alagno, Corsaro».
C’era poi un’altra chiesa medioevale, posta un po’ più in alto rispetto a S. Giovanni Battista, dedicata a S. Luca. Studiando il codice Perris, trovai a pag. 8 del primo volume che questa chiesa forse esisteva già nel 993. Fravolini e Guerriero dimostrarono che comunque esisteva nel 1123. In origine era piccola come quella di S. Giovanni, ma a metà Cinquecento era già quasi come oggi; contiene panche per 140 posti e sedie per un’altra ventina.
L’ingresso di S. Luca si affacciava su una spianata poi divenuta l’odierna piazza capiente che abbiamo già visto, con il lato lungo parallelo alla costa. Quella era e ancora oggi è l’unica piazza esistente a Praiano, molto ariosa. Per l’orografia di Praiano l’ampiezza della spianata era ed è un fattore straordinario. Tant’è vero che il 3 ottobre 1562 un anno prima della conclusione del Concilio di Trento, come ricordò Camera, la Chiesa di S. Luca ospitò un’assemblea unitaria («cives in unum congregati») per l’elezione congiunta del sindaco di «Plagiano (lo honorevole Serio De Rocco)» e del sindaco di «Vectica (lo honorevole Alfonso Gagliano)». La piazzetta attigua oggi si chiama non a caso dell’«Antico Seggio».
Esistevano anche altre due antichissime chiesette: quella di S. Tommaso, posta tra S. Luca e S. Giovanni, e l’altra di S. Maria di Costantinopoli situata più in alto di S. Luca, ma nessuna delle due poteva competere per dimensione, ubicazione e struttura statica.
Per capire il contesto in cui fu fatta la scelta tra S. Giovanni Battista e S. Luca, è necessario sapere cosa stava accadendo da un punto di vista politico e amministrativo, perché la questione religiosa a quei tempi era legata alla politica e alla società quanto o ancor più di oggi.
Dopo essere stato dal 1442 sotto il dominio della Dinastia Aragonese, nel Cinquecento il Regno di Napoli era passato nelle mani degli Asburgo, sovrani di Castiglia e di Aragona in Spagna. Ebbene in questo quadro, a partire dal 1462, quindi venti anni dopo l’avvento della dinastia Aragonese, Amalfi divenne un Ducato, più precisamente un feudo, perché re Ferdinando I lo diede «cum honore et titulo ducatus» in dote a sua figlia Maria d’Aragona, quando lei sposò Antonio Todeschini Piccolomini. Quest’ultimo era parente dei ricchi Piccolomini di Siena ed era nipote di papa Pio II, nonché fratello di papa Pio III. Re Ferdinando aveva avuto questa figlia Maria dal concubinato con Diana Guardati dama di Sorrento. Maria morì giovanissima, appena otto anni dopo il matrimonio. Secondo Matteo Camera, «non vi fu ordine, né condizione di persone che gran lutto non ne portasse, e non tentasse d’applaudir la sua vita e di piangere la sua fine».
Nel 1492, Giovanna duchessa di Amalfi, figlia di Enrico di Aragona, a sua volta figlio di re Ferdinando e fratello di Maria, rimase vedova in giovane età e in gran segreto sposò il suo maggiordomo Antonio Bologna; meno di vent’anni dopo, nel 1510, il cardinale Luigi fratello della duchessa, per vendetta e punizione, fece assassinare ad Amalfi il maggiordomo Bologna, la sorella Giovanna e i loro tre figlioletti nati nel frattempo. La storia fu raccontata in alcune novelle e in un dramma, opere di Matteo Bandello, William Painter, John Webster [14.1], Lope de Vega. All’epoca fecero il giro d’Europa mietendo successo di pubblico.
Nel corso degli anni, i duchi di Amalfi divennero spendaccioni. In particolare, un erede di Antonio, Alessandro Piccolomini, conduceva vita dissolutissima «con molte et molte donne».
A metà Cinquecento le gabelle, cioè le tasse, che i duchi imponevano in misura asfissiante ai sudditi amalfitani non bastavano più a mantenere il loro tenore di vita. Cosicché, i Piccolomini furono costretti a vendere progressivamente tutto il proprio patrimonio feudale. Ma neanche ciò bastò. La moglie di Alessandro Piccolomini, la duchessa Costanza, alla fine decise di cedere al proprio zio paterno Giovanni lo Stato di Amalfi e si fece monaca.
Neanche lo zio Giovanni però se la passava bene, era indebitato e stava pure male. Nel 1582 morì. L’anno dopo, il 5 dicembre 1583, la vedova Maria d’Avalos offrì in vendita il Ducato di Amalfi per 212.697 ducati alla principessa di Melfi, Zenobia del Carretto. L’affare non venne concluso perché ci fu un’offerta migliorativa avanzata dal principe Colonna di Stigliano, pari a 216.160 ducati.
A quel punto, la popolazione della costa amalfitana, organizzata in “universitas”, entrò in competizione, offrì la stessa somma per comprare la propria indipendenza da un duca, un principe o un qualsiasi altro padrone e chiese al governo di esercitare la prelazione di cui godeva. Il governo approvò. Le universitas raccolsero le risorse finanziarie per l’acquisto, quanto a metà (100 mila ducati) con la vendita di tutti i loro «corpi patrimoniali e burgensatici», tra i quali i diritti sul commercio di “dogana” a famiglie patrizie del posto, e quanto alla restante metà (116.160 ducati) attraverso un debito. Le comunità della costa amalfitana riscattarono il feudo. Come si dice, lo demanializzarono. Il 12 dicembre 1583, con atto del notaio Agnello De Martino in Napoli, l’antico Ducato di Amalfi fu rimesso nel demanio regio.
Naturalmente, i debiti contratti pesarono molto sulla stessa popolazione. Per pagarne le rate le universitas dovettero aumentare le entrate finanziarie, incassare ulteriori gabelle, dopo aver ottenuto l’autorizzazione dai re di Napoli. Tra l’altro: due carlini per ogni libbra di seta, un carlino a tomolo di grano, sei carlini su ogni botte di vino. Insomma si passò dalla padella nella brace.
Il prezzo pagato dagli amalfitani per essere liberi fu altissimo e molto superiore a quanto per esempio era stato corrisposto (130mila ducati) appena trent’anni prima, nel 1553, dalla comunità di Salerno per la sua demanializzazione.
All’asta del 1583 assieme alle altre universitas della costa parteciparono anche, ovviamente, Praiano e Vettica Maggiore e ne sopportarono pro-quota il conseguente peso economico-finanziario.