D’altra parte Matteo faceva lo stesso, ricopiava negli stessi anni il medesimo modello di comportamento, di investimento, di crescita familiare e patrimoniale del padre. Solo che lo faceva con la grinta di nonno Crescenzo, riuscendo perciò meglio di Michelangelo.
Nel Catasto Provvisorio introdotto nel 1809 da Gioacchino Murat, Matteo trentasettenne già risulta proprietario di «una casa a una facciata n° 52, strada Costanzi, di una bottega n° 54 e tre Piane» [80.1]. La strada Costanzi era equidistante (450 metri circa) da Sedile di Porto e da piazza S. Maria La Scala, al centro del quadrilatero formato dai particolari 148, 149, 28, 34-32 della mappa [80.2]. Oggi è vico dei Costanzi [80.3].
Nel 1812, poi, Matteo si accorse che a non passarsela per nulla bene c’erano tre fratelli Attanasio (Francesco, Domenico, Gennaro) figli di «Niccola» e nipoti di un fratello di quest’ultimo, tale Michele, due ricchi signori morti anni prima, dai quali i tre avevano ereditato «un comprensorio di case, appartamenti nobili, quartini, bassi, stalle, rimesse con giardinetto… sito nella strada S. Maria Antesaecula segnato col numero di Polizia [cioè numero civico] centododici», particolare 539 del foglio 11 della mappa di Carafa e Carletti del 1775 [80.4]. La strada S. Maria Antesaecula si trovava e tuttora si trova al centro del rione Sanità [80.5], poco distante dall’antica chiesa di S. Maria dei Vergini. Sulla mappa di Napoli di settant’anni prima, all’epoca della nascita di Michelangelo, in quel rione esistevano poche costruzioni. Tra queste c’era il comprensorio degli Attanasio.
I tre fratelli, rimasti senza guida, erano allo sbando, avevano debiti fino alla cima dei capelli e non erano nemmeno uno stinco di santo. Alla vigilia di Natale del 1812, il 23 dicembre, Matteo diede quattro soldi ai tre che ne avevano un gran bisogno e fece firmare loro una scrittura con la quale si impegnavano a vendere a Matteo «l’intiero comprensorio di case… ad Antesaecula» e a trasformare la scrittura in atto pubblico.
Francesco, Domenico e Gennaro Attanasio si presero i soldi, firmarono il pezzo di carta ma tralasciarono di dare un seguito alla cosa, non la ufficializzarono con alcun atto pubblico, sperando che non se ne facesse più nulla. Matteo invece, appena passate le feste, subito dopo l’epifania, registrò la scrittura, li citò subito in giudizio e il 1° febbraio 1813 ottenne dalla 1a Sezione del Tribunale Civile ché «li signori Francesco, Gennaro e Domenico Attanasio tra giorni otto dall’intimazione della presente sentenza riducano in pubblico istromento la carta privata formata in quadruplo originale nel dì 23 decembre dello scorso anno 1812» [80.6].
A questo punto, Matteo si fece cedere dal suocero Gaetano Cogna un credito di cento ducati che quest’ultimo vantava nei confronti dei fratelli Attanasio; con il grimaldello di essere cessionario del credito, cercò di ottenere l’esproprio del comprensorio. Ottenne la relativa sentenza del Tribunale di Commercio di Napoli il 27 giugno 1813. Ma questo sforzo poi non fu portato a compimento, visto che il Tribunale «sospese la espropria per essere trascorsi li sei mesi dal dì della condanna contumaciale prima di essersi eseguita detta sentenza».
I tre fratelli però se la passavano sempre peggio, non potevano uscire di casa ché i loro creditori li aggredivano. A un certo punto, furono loro a cercare Matteo e a offrigli in vendita solo (e tanto per cominciare) il «secondo appartamento nobile, con giardinetto e rimessa, grotta dentro al palazzo accosto la detta rimessa e piccolo basso sottoposto al giardino coll’ingresso dal vicolo Cantore», affittato a tale Vincenzo Quirola per 140 ducati l’anno. «Alle quali premure», cioè a tale offerta di vendita, «è condisceso il signor Matteo Gallo sotto li seguenti patti»: che fosse affidata una relazione peritale a un certo arch. Michele Scodes; che nel proporre il prezzo questo tenesse conto della distanza dal centro della città, dell’inconveniente che la porzione in vendita ricadeva in un condominio diverso nello stesso comprensorio, del canone di affitto.
Sulla base di questa perizia, il prezzo fu concordato in 800 ducati e 87 grana, decurtato «della fondiaria [cioè dell’imposta su terreni e fabbricati] e delle annue accomodazioni, censo e pronte riparazioni». L’atto di compravendita fu stipulato il 6 agosto 1815 con rogito notaio Domenico Maria d’Acampora [80.7]. Ai tre fratelli non arrivò neanche un soldo, perché la somma concordata rimase a Matteo per pagare i creditori degli Attanasio. Anzi, gli Attanasio restarono debitori di Matteo per 300 ducati, comprensivi dei cento cedutigli dal suocero.
Inoltre, i tre fratelli dettero a garanzia del loro debito l’ipoteca sul resto del comprensorio di case: «solidalmente obbligano tutt’i loro beni presenti, e futuri, sotto special ipoteca, e pegno sottopongono a favore di esso compratore signor Gallo li rimanenti membri di detto comprensorio di case sito a S. Maria Antesaecula numero centododici, e poss’all’oggetto prendersene la iscrizione all’Uffizio della Conservazione delle ipoteche della Provincia di Napoli».
Un dettaglio che fa sorridere e dimostra la grinta di Matteo è dato dal fatto che uno dei tre fratelli, Domenico, era finito carcerato nella casa di detenzione di Montesanto a Napoli e, per farlo partecipare «extra carceres» al rogito, Matteo gli fece avere un permesso speciale di uscita per poche ore.
Poche settimane prima del rogito, il 20 maggio 1815, con la caduta del bonapartismo e la firma del trattato di Casalanza, e poco prima dell’uccisione di Murat, Ferdinando IV era tornato dalla Sicilia e si era ripreso il trono di Napoli. Nel 1814 la moglie Maria Carolina era morta a Vienna e dopo pochi mesi Ferdinando, invano avversato dal figlio Francesco, si era risposato con Lucia Migliaccio, vedova del potente principe siciliano Benedetto III Grifeo di Partanna, promossa per l’occasione Duchessa di Floridia e, come disse Montanelli, «donna di nobile stirpe, di volgare ingegno e per antiche libidini famosa». Il pittore e scultore Vincenzo Gemito ne ritrasse il profilo in un disegno su carta [80.8], che io posseggo.
I Bonaparte a Napoli avevano conquistato un consenso sociale molto superiore a quello ottenuto dai giacobini meridionali nel 1799, cosicché quando tornò dalla seconda fuga in Sicilia Ferdinando si guardò bene dal promuovere impiccagioni come aveva preteso la prima volta.
I Gallo non avevano fraternizzato con i giacobini, ma avevano odiato i Bonaparte ed erano delusi dai Borbone. Subirono gli eventi restandone indifferenti e succubi. Proprio come borghesi dei tempi nostri.