cap 78

Il 31 agosto 1810, regnante Gioacchino Murat, Michelangelo firmò una scrittura privata con la quale prendeva in affitto dai conti Giovanni e Vincenzo Spena una masseria di 32 moggia, cioè 108mila metri quadrati, quasi 11 ettari, nel comune di Cardito [78.1], a due chilometri e mezzo da Frattamaggiore in direzione di Caivano e a venti chilometri da Napoli, lungo la direttrice del raccordo che oggi conduce dalla tangenziale all’autostrada A1. Quella masseria gli Spena l’avevano avuta in eredità dai loro antenati con atto notaio Giordano Frezza 17 novembre 1700, ma dal 13 ottobre 1807, evidentemente con l’arrivo di Giuseppe Bonaparte, il diretto dominio di quelle terre era passato al «Monistero di S. Patrizia» e gli Spena erano diventati semplici enfiteuti e ci dovevano pagare sopra ogni anno un canone pari a 110 ducati al lordo dei pesi fiscali a beneficio della Real Casa.
Michelangelo fece quel passo per una serie di ragioni: cercava un riscatto dopo aver perso la masseria di Capodimonte, e lo cercava con tanta determinazione da esser pronto a qualsiasi cosa; voleva dimostrare di aver raggiunto una forza economica e sociale superiore all’aristocrazia napoletana smidollata; dopo l’uscita dal mercato della seta voleva insistere con investimenti in case e terra; ma soprattutto rispetto all’attività d’impresa della seta giudicava più conveniente fare l’intermediario (“gabellotto”, termine che in Sicilia indicava l’affittuario di un latifondo) tra l’enfiteuta (gli Spena nella fattispecie) e i coloni che lavoravano la terra. Si trattava di un’attività puramente speculativa.
Questo ruolo sociale non era ritenuto coerente con l’appartenenza alla cosiddetta borghesia produttiva illuminata; ma forse la dice lunga sulla borghesia italiana del Meridione che nell’Ottocento perpetuava ancora forme residuali di feudalesimo.
Il 31 agosto 1810, alla firma della scrittura privata, Michelangelo versò ai conti Spena duemila ducati a titolo di «estaglio», cioè di canone di affitto. La scrittura privata fu registrata il successivo 29 ottobre. I conti Spena sottacquero a Michelangelo di aver ricevuto una settimana prima della firma, il 23 agosto, un precetto preliminare di pagamento della somma di tremila ducati per decisione della Corte di Appello a tutela di un certo Vincenzo Sanseverino e che tredici giorni prima della registrazione, il 10 ottobre, avevano ricevuto un atto di pignoramento della medesima masseria affittata a Michelangelo. Quindi omisero due volte di dargli un’informativa fondamentale.
Con sentenza del 4 febbraio 1811 [78.2], ai sensi dell’articolo 1328 del Codice Napoleone e dell’art. 692 del Codice di Procedura, «Regnante Gioacchino Napoleone Re delle Due Sicilie, Principe e Grande Ammiraglio della Francia», il Tribunale di Prima Istanza della Provincia di Napoli tra l’altro confermò la nullità della scrittura privata e condannò il conte Giovanni Spena (il fratello Vincenzo era intanto uscito di scena) a restituire a Michelangelo i duemila ducati ricevuti per «estaglio». Spena però non restituì mai la somma a Michelangelo, né da quel momento versò più alcun canone di enfiteusi alla Real Casa.
Immediatamente dopo, il 20 luglio 1811, si procedette a un’asta con la procedura della candela vergine per l’aggiudicazione dei censi del conte Spena. Michelangelo offrì in partenza 1.400 ducati e quindi durante la consumazione delle candele aggiunse altri 100 ducati. La prassi della candela vergine consisteva nell’accensione di una candela, in seguito sostituita con i “prosperi”, fiammiferi di grosse dimensioni, che rimaneva accesa finché non si levasse una voce di offerta maggiore. L’asta aveva termine solo al totale spegnimento della candela vergine. Qualora per la durata di tre candele non vi fosse stata alcuna offerta, l’asta veniva considerata deserta.
Il 5 agosto 1811, il Tribunale Civile di Napoli sentenziò l’«aggiudicazione definitiva» grazie alla quale Michelangelo divenne proprietario di tutti i canoni del conte Spena nel comune di Cardito. Una parte di questi canoni era stata versata al conte da alcuni suoi sub-enfiteuti ed era stata poi sequestrata dalla Real Casa creditrice dello stesso Spena. Precisazioni giunsero il 16 maggio 1812 [78.3]. Il conte Spena presentò appello, ma il 20 settembre 1813 la Corte d’Appello lo rigettò [78.4].
Con decisione 29 aprile 1814, la Corte di Appello condannò la Real Casa, amministrata dal cavalier Alessandro Pelliccia, a versare alla Cassa di Ammortizzazione i canoni introitati dai sub-enfiteuti del conte Spena.
Non avendo mai più versato i 110 ducati annui, Giovanni Spena aveva cumulato un debito pari a 550 ducati al lordo dei pesi fiscali. La Real Casa a quel punto chiese al conte ma anche a Michelangelo di saldare quel debito. Michelangelo rispose di no, ché lui aveva comprato i canoni all’asta e non voleva essere molestato. La Real Casa rispose più volte.
Ai Borbone, che dopo il Congresso di Vienna e il Trattato di Casalanza del 20 maggio 1815 erano tornati a Napoli, fu prospettata la seguente soluzione: per evitare lunghi litigi, Michelangelo si sarebbe addossato il pagamento del canone di 110 ducati per due anni depurati del quinto secondo legge e la Real Casa gli avrebbe ceduto il diretto dominio del Fondo. La soluzione fu studiata da Francesco Fusto, avvocato della Real Casa.
In un suo rapporto in data 29 agosto 1816 l’avv. Fusto ricostruì le vicende della masseria di Posillipo, precisò che nessun debito risultava a nome di Michelangelo (il quale quindi era da ritenere affidabile) e sostenne che per la Real Casa – invece di mantenere un canone enfiteutico fuori Napoli gravante su più persone diverse – sarebbe stato meglio esigere un canone da una sola persona su una masseria in Napoli. In altre parole, per la Real Casa era meglio i soldi prenderli dalla masseria di Posillipo appartenente a Michelangelo che non da Frattamaggiore. Tutti questi passaggi della vicenda furono richiamati nelle premesse del rogito che vediamo ora.

About Riccardo Gallo
Riccardo Gallo (Roma, 23 settembre 1943) è un ingegnere, economista e docente italiano. Professore alla Sapienza, ha svolto compiti di risanamento del sistema produttivo italiano in ambiti governativi, finanziari, aziendali, riversando e incrociando le competenze acquisite. È stato definito il bastian contrario sia del management pubblico che del privatismo arrogante, estremista di centro. Ha collaborato con Il Sole 24 Ore. Oggi è opinionista de L’Espresso.
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