Lo spiazzamento sul mercato provocato dall’investimento in nuovi macchinari e dall’utilizzo di nuove conoscenze tecniche fu traumatico e rese di colpo non più competitivi i vecchi artigiani.
I cambiamenti nell’organizzazione di vendita furono determinati dal fatto che ogni nuovo centro di produzione (oltre quelli in Calabria e in Sicilia, soprattutto S. Leucio) aveva un proprio rivenditore, cui dava grossi quantitativi di prodotto innovativo a prezzi convenienti. Questi ultimi erano resi possibili da costi di lavorazione più bassi grazie a incentivi statali. Il rivenditore nel collocare questi grossi quantitativi saturava la domanda di mercato e stravolgeva gli equilibri preesistenti. Per fare un esempio, il rivenditore della Casa del Carminello era un certo D. Giuseppe Padula, il quale aveva il negozio alla Pietra Santa a Napoli, vicinissimo al Conservatorio dei Santi Filippo e Giacomo.
La concorrenza commerciale raggiunse livelli insostenibili per Michelangelo e Giuseppe quando la Real Colonia di S. Leucio si integrò a valle nel campo delle vendite. Il primo spaccio all’ingrosso fu aperto a S. Leucio, nello stesso magazzino della fabbrica; da qui poi i manufatti venivano anche mandati alla vendita presso un deposito di Napoli o presso i vari rivenditori al minuto a Napoli o nelle province del Regno. Ma ben presto ci si rese conto che questo sistema non funzionava, perché i prodotti marcati S. Leucio si mischiavano, si confondevano, consentivano ai rivenditori di far passare manifatture “paesane” come prodotti di S. Leucio.
Per queste ragioni, a giugno del 1786, quindi pochi mesi dopo la morte di Crescenzo, la Real Colonia decise di aprire un proprio negozio nella zona di Napoli che all’epoca era considerata la più prestigiosa per i drappi di seta; scelse Sedile di Porto, fittò una bottega proprio vicino ai fondachi dei Gallo, e andò a insidiarne la clientela. Secondo Tescione, «Completati nel luglio 1786 gli accomodi necessari, tra la grande curiosità e aspettativa degli avventori, il negozio fu aperto al pubblico. Su di uno scricchiolante impiantito di castagno, in due alti stipi laterali a vetri, dipinti e verniciati a legno forestiero si allineavano in file multicolori gli ormesini, le nobiltà, i veli, i velluti e le floranze. Due portiere e una mostra di panno verde delle tessiture d’Arpino, con i gigli borbonici e le lettere della leggenda ricamati di bianco, ornavano l’entrata del fondaco: un canapè di pelle gialla e dodici sedie impagliate, d’un bel verde filettato d’oro, ne completavano, col banco di vendita, il mobilio. In fondo, nelle loro cornici dorate fiammanti, stavan due bei ritratti di Ferdinando e di Maria Carolina dipinti ad olio da D. Vincenzo Diana e, in mezzo a loro, il ritratto di S. Gennaro, col suo candelotto acceso in continuazione».
Come direttore di quel nuovo negozio fu scelto un certo Pietro Frate, un drappiere molto vecchio, quasi coetaneo di Crescenzo e tessitore come lui da giovane, il quale in più aveva accumulato esperienze all’estero, in Francia e a Messina dove era stato mandato da re Carlo. Uno insomma che conosceva bene la seta e sapeva come venderla. La questione però era che Pietro Frate aveva l’aspirazione di indossare la livrea reale, con cucite «le cifre e l’armi reali», sulla falsariga di quella che aveva indossato Carlo di Borbone, mentre Ferdinando IV non voleva. Dopo un po’ Pietro Frate se ne andò. Fu rimpiazzato con Francesco Gattinara.
Capita spesso: che un capo azienda abbia una personalità non all’altezza della carica che ricopre; che non comprenda l’utilità per l’azienda di accogliere le piccole istanze di gratificazione da parte di qualche bravo dirigente, che anzi gliele neghi e lo mortifichi; che quindi il bravo dirigente deluso lasci l’azienda; che il dirigente sostituto venga scelto dallo stesso capo azienda; che sia meno bravo del predecessore; che l’azienda declini. Nel nostro caso del negozio reale a Sedile di Porto a fine Settecento, Ferdinando IV si comportò come un capo azienda inetto, Pietro Frate era il bravo dirigente, Francesco Gattinara il sostituto.
Così come mi apparve chiaro che la politica industriale del governo nel campo della seta intorno al 1740 fu modernissima, grazie a strumenti di domanda pubblica, concorrenza, formazione, innovazione tecnologica, organismi di coordinamento, altrettanto maturai il convincimento che la politica attuata da Ferdinando IV intorno al 1780 fu, al di là dell’apparente modernismo, molto dannosa.
Invece di limitarsi a fare un centro di formazione di eccellenza internazionale per alimentare di nuova linfa le piccole imprese locali, cosa questa che sarebbe stata meritoria e di avanguardia, l’errore di Ferdinando consistette nel voler intraprendere un intervento pubblico diretto, concretato nella realizzazione di una fabbrica con capitali e incentivi statali, la quale andò a fare concorrenza sleale e turbare il mercato. Non importa che fosse una fabbrica moderna, che i suoi prodotti fossero validi, apprezzati dai consumatori, di minor prezzo. Non era grave che questa fabbrica fosse di proprietà pubblica; la natura del capitale non rileva ai fini del corretto funzionamento del mercato. Il problema molto grave era che la Real Colonia godeva di enormi risorse finanziarie, capaci di coprire le perdite di start-up; impiegava lavoro qualificato e di minor costo grazie agli enormi incentivi; con questi suoi mezzi statali spiazzò le piccole imprese private, una sorta di distretto ante-litteram per la tessitura, la tintura, la commercializzazione, le quali imprese detenevano un patrimonio storico incarnato dai maestri d’arte italiani, eredi di quel saper fare italiano rinascimentale, che nel Novecento porterà in altri settori al Made in Italy; non le stimolò, le distrusse, tanto era il divario di competitività. Nata da una delle idee illuminate di Carlo di Borbone, la S. Leucio fatta da Ferdinando IV fu un danno incommensurabile per il tessuto produttivo e commerciale locale.
Insomma, con quasi duecento anni di anticipo, S. Leucio inaugurò la stagione degli errori dell’industrializzazione statale del Mezzogiorno attuata dai governi del Novecento. È anche vero, in ogni caso, che le piccole imprese napoletane per i loro limiti dimensionali avrebbero sofferto per fronteggiare la concorrenza internazionale.
Il dibattito che ne nasce incrocia quello degli anni Duemila relativo alla grave mortificazione e graduale scomparsa in Italia del lavoro artigiano nei casi in cui la globalizzazione non ne comprese e non ne valorizzò il contenuto, quando cioè il “global” non si trasformò in “glocal”.
In questa epoca di cambiamenti a Napoli, vissero e si cimentarono Giuseppe e Michelangelo Gallo.