Otto anni dopo il matrimonio di Rosa Maria, nel 1767 a sposarsi fu Teresa, la sorella minore. Andò in moglie a Gregorio Cerbone [50.1]. I capitoli matrimoniali che Crescenzo scrisse per lei e Gregorio ricalcarono quelli fatti a suo tempo per Rosa Maria e Gaetano. Anche la dote fu identica, così come la quota di 300 ducati in danaro a favore di Gregorio, in quanto che Crescenzo riteneva che a quell’epoca l’inflazione non fosse forte e nel volgere di otto anni, dal 1759 e il 1767, la moneta avesse mantenuto un potere d’acquisto quasi invariato. Come unica differenza rispetto a Gaetano, Gregorio Cerbone non godeva dell’appellativo di magnifico. Può darsi che fosse di rango sociale inferiore o che il ricorso all’appellativo cominciasse a essere meno frequente. Tutte queste notizie furono richiamate nell’atto di donazione di Crescenzo ai figli, di cui ci occuperemo più avanti.
La quarta figlia femmina di Crescenzo e Carmina si chiamava Angela, era «in capillis» e con il passare degli anni si rassegnò a rimanere tale. “Vergine in capillis” e altre espressioni simili, come “figlia in capillis” e “donna in capillis”, indicavano nel diritto latino la condizione di illibatezza delle adolescenti in età da marito e delle donne ancora nubili, le quali potevano andare a capo scoperto, mentre quelle maritate dovevano averlo in certo modo protetto. Forse da questo derivava la costumanza delle nostre contadine che ancora fino al dopoguerra del Novecento usavano coprire i capelli con “gliu maccaturœ”, un grande fazzoletto colorato annodato dietro alla nuca. Se ben ricordate Vincenza, la sorella di Crescenzo che nel 1721 si accollò il ruolo di vice della madre da poco morta, portava i capelli raccolti con un fazzoletto, in questo modo rinunciando a pubblicizzare il suo stato di ragazza da marito per fungere da madre dei fratelli minori rimasti orfani. Tutto quadra.
Questo segno distintivo dei capelli pare avesse un’origine longobarda, quindi molto antica, ma è anche vero che è una cosa insita nella natura stessa della donna. La psicologia spiega infatti che le chiome lunghe costituiscono un forte richiamo per il genere maschile e che questo non sa rimanerne indifferente.
Angela, tuttavia, non era proprio come si dice una bella figliola e, anche se portava i lunghi capelli sciolti, non provocava alcuna ressa al suo passaggio nelle strade della contrada. In compenso o, a seconda dei punti di vista, come aggravante, aveva un certo caratterino, diciamo così alquanto ribelle, e non ci pensava proprio a seguire le orme di Marianna nella vita del Conservatorio. Non accettare il convento era anche un segno di evoluzione della condizione femminile. Crescenzo e Carmina la capivano, era figlia loro. Era comunque una gran brava ragazza, molto laboriosa. In tarda età, Crescenzo ne riconobbe i meriti domestici: «detta D. Angela ha faticato in sua casa».
Per quanto riguarda Pasquale, terzogenito, non sappiamo se fu lui a decidere di farsi prete, dopo esser cresciuto stando tutti i giorni nella Parrocchia di S. Maria La Scala, o se fu Crescenzo a scegliere il suo destino. Fatto sta che divenne sacerdote il nostro Reverendo don Pasquale.
La vita di Giuseppe e Michelangelo fu assolutamente diversa, «poicché fin da fanciulli (allorché esso D. Crescenzo viveva con le fatighe personali) faticavano in casa su de telari di seta», come ammetterà il padre nel 1785. Dunque, Giuseppe il primogenito e Michelangelo secondo figlio cominciarono a lavorare con il padre quando avevano meno di tredici anni, «fanciulli». Crescenzo li metteva sui telai e gl’insegnava a ordire. E loro passavano ore e ore, senza fiatare, anzi felici di dare una mano alla famiglia. Crebbero secondo un modello austero, produttivo, serio e serioso, con il mito del padre, verso cui nutrivano un timore reverenziale, fin troppo. Al tempo stesso però entrambi studiavano e venivano retribuiti.
Non ricorrevano gli estremi del moderno sfruttamento minorile in ambito lavorativo. Nell’antichità esistevano numerosi esempi di forme di sfruttamento, ma erano legati alla schiavitù o al lavoro agricolo e di allevamento. Fin dal Seicento, invece, donne e fanciulli venivano spesso addetti a lavori produttivi. Per reggere alla concorrenza e ai costi bassi, veniva utilizzata mano d’opera poco pretenziosa. A Mantova e a Verona migliaia di ragazzi erano impiegati nella produzione di berretti. Fanfani ricordò che nel Seicento ad Alençon, nella Bassa Normandia, e ad Auxerre vecchi e bambini da sei anni in su venivano impiegati nell’industria dei merletti.
Giunti a 25 anni, i due fratelli Gallo «con tali fatiche ed economia, avendo cumulati da circa ducati tremila», convinsero Crescenzo «a volersi ponere a negoziare in piazza, siccome si fece». La svolta nell’attività fu radicale. Crescenzo da giovane nel 1740 era maestro tessitore, ma poi, con la spinta dei due figli, nel 1765 intraprese l’attività di negoziante di seta. In quel momento aveva 55 anni.
Dunque i due fratelli, pur nutrendo rispetto, anzi timore riverenziale verso il padre, ugualmente avevano la loro personalità e capacità di collaborare con approccio propositivo e proattivo. Una parte del merito di ciò, ovviamente, era dello stesso Crescenzo, il quale bilanciava sapientemente severità, pazienza, intransigenza, amorevolezza. Martedì 2 giugno 1767, si immatricolarono all’Arte della seta il quasi ventottenne «Michel’angiolo Gallo figlio di Crescenzo di Napoli» [50.2] e il «fratello germano» Giuseppe [50.3]. il 17 maggio 1785 Crescenzo dichiarò al notaio Antonio Persico di Napoli: «Per ben venti anni assieme hanno negoziato, né altro da detto signor D. Crescenzo hanno avuto che soli ducati dieci al mese per ciascuno, quali con altri loro particolari proventi, cioè con ordimento delle tele di sete ed incannature di esse, e con altre industrie fuori della bottega, l’hanno servito per il sostegno di loro famiglia». In questo bilancio consuntivo, più che orgoglio Crescenzo mostrava un senso di colpa verso i figli.
È interessante notare che la paga di ognuno dei due, ammontante a dieci ducati al mese, cioè 120 ducati all’anno, era pari a più del triplo dei 36 ducati corrisposti a suor Marianna «per di lei maggior mantenimento e commodo». È interessante notare altresì che nel 1785 «Per ben venti anni assieme hanno negoziato», dunque il giorno dell’immatricolazione all’Arte della seta erano già negozianti. Un po’ come Crescenzo, che nel 1742 era già tessitore.
Venti giorni prima di immatricolarsi e poco prima del matrimonio della sorella Teresa, lunedì 11 maggio 1767 come abbiamo già visto [50.4] Michelangelo sposò Catarina Masucci [50.5], non ancora diciannovenne, figlia di Donato negoziante e di Grazia Gisolfi. Catarina era nata infatti il 25 novembre 1748. All’inizio di questo racconto, abbiamo detto che ostetrica era stata Antonia Arena, la stessa che aveva fatto nascere Michelangelo. Al matrimonio, uno dei testimoni per Michelangelo fu un tale GiovanBattista Cassinelli, tessitore di Avella, comune vicino Baiano in provincia di Avellino.
Catarina non aveva studiato, non sapeva leggere né scrivere. Firmò il modulo di rito apponendo una croce («signum crucis») sotto la dichiarazione di rito: «Dalla mia nascita sin oggi mai mi sono partita da questa città di Napoli ed abito sotto il distretto della parrocchia di S. Maria a Piazza, e mai sono stata casata, né di presente tengo marito in parte alcuna del mondo, non ho fatto voto di castità né di religione né monaca professa. Non ho promesso né dato fede e parola di matrimonio ad altro uomo, solamente a Michelangelo Gallo, col quale al presente intendo contrarre matrimonio» [50.6].
La condizione di analfabeta all’epoca era frequentissima. Nel processetto matrimoniale le tre donne che intervennero, cioè Catarina, la madre Grazia Gisolfi, un’amica Patrizia D’Acunzo, erano tutte analfabete. Secondo i calcoli di Illibato, le spose di Napoli che sapevano apporre la propria firma sotto la dichiarazione di rito erano appena il 7% nel 1750 e l’8,5% nel 1775.
A proposito di questo matrimonio, un particolare appare incredibile. Al termine di chissà quale trattativa, il povero (non nel senso letterale del termine, anzi tutt’altro, essendo anche lui negoziante) Donato Masucci fece la sua parte e diede a Michelangelo come dote di sua figlia Catarina una fortissima somma in danaro. Ebbene, dagli atti risulta che di questa somma Crescenzo trattenne per sé 600 ducati. Un primo commento è che si trattava di un’asimmetria eclatante: quando era Crescenzo a dover dare una dote per una propria figlia femmina che si sposava, destinatario del dono in danaro era il futuro genero. Quando invece a sposarsi fu il figlio maschio, allora il beneficiario della dote corrisposta dal padre della sposa non fu più lo sposo ma, almeno in parte, il consuocero Crescenzo. Carino, vero? Figuriamoci a fare un discorso del genere negli anni Duemila!
Un secondo commento è che Crescenzo trattenne per sé una somma (600 ducati) pari a ben il doppio della dote (300 ducati) che lui stesso aveva dato a ciascuno dei suoi futuri generi.
Un terzo commento, derivato dai primi due, è che questa differenza di regola o di prassi si poteva spiegare solo con la personalità di Crescenzo, presumibilmente schiacciante su figli, consuoceri, nuore e generi.