Crescenzo e Carmina mantennero sempre un tenore di vita agiato ma senza alcun lusso, con una propensione forte agli investimenti e non ai consumi. E per investimenti si devono intendere sia quelli materiali da far fruttare, sia quelli immateriali rappresentati dalla sistemazione dei loro sette figli nonché di qualche parente estraneo al loro più stretto nucleo familiare.
Per esempio il 22 aprile 1760 Crescenzo, con un’operazione sul Banco di S. Eligio, versò 45 ducati al barone Benedetto Favina a saldo di un debito di 166 ducati contratto nei confronti di quest’ultimo da Pietro Gallo tredici anni prima, il 21 marzo 1747, atto notaio Filippo Vallo di Napoli [49.1]. Pietro era il fratello minore di Crescenzo, «della Terra di Praiano», era venuto anche lui a Napoli nel 1728, poi era andato a fare il commerciante «nella Terra dell’Almarosa Provincia di Terra di Lavoro», cioè nell’attuale provincia di Caserta. Aveva ricevuto «tante mercanzie» da un suo fornitore, il barone Favina. Era riuscito in un primo tempo a pagargli 121 ducati, poi dopo null’altro. Il barone aveva invano tentato in ogni modo di recuperare il credito, perfino aggredendo il modesto patrimonio immobiliare messo insieme da Pietro. Crescenzo, per senso di famiglia, intervenne in soccorso del fratello che era stato meno bravo e meno fortunato di lui. Oggi Almarosa e Terra di Lavoro sono vigneti e vini di alta qualità in California. Nomi portati laggiù chissà quando e da quali emigranti.
A parte suor Marianna, delle altre tre figlie di Crescenzo la prima a trovare marito fu Rosa Maria. Il primo nome, Rosa, era quello della nonna paterna, la moglie di Giuseppe, morta a Praiano il 13 febbraio 1721. Anzi, nel prosieguo della sua vita, fu chiamata quasi sempre solo Rosa. Pretendente alla sua mano fu un giovane pretenzioso (mi scuso per il bisticcio di parole, ma era proprio così), Gaetano Foti, figlio di Giuseppe Foti, che era buon amico di famiglia.
Nel 1758, dopo alcuni mesi di corteggiamento, fu ufficializzata la promessa di matrimonio e cominciò un’approfondita trattativa per stabilire la dote della sposa. Alla fine, nel 1759 fu redatto un vero e proprio contratto tra le parti [49.2][49.3], detto «capitoli matrimoniali». Crescenzo sottoscrisse l’importo della dote: 340 ducati, di cui 300 in danaro e 40 in «vesti e galanterie».
I 300 in danaro Crescenzo li versò in due tranche: la prima di 181 ducati nelle mani del futuro genero Gaetano «in tante monete contante d’argento», alla firma dei «capitoli matrimoniali», e la seconda a saldo il 2 maggio 1759. Anzi, questa somma fu aumentata (non so perché) con una specie di mancia di ulteriori 8 ducati. «Gaetano ha confessato e dichiarato averli ricevuti et avuti nel modo detto di sopra, chiamandosi delle medesime doti ben contento e sodisfatto, e particolarmente del detto apprezzo, quietandoli in ampia e valida forma, anco per aquiliana stipulatione».
I 40 ducati non in contanti, perché in «vesti e galanterie», erano una specie di corredo-arredo delle proprietà. Negli anni settanta del Settecento le stoffe di seta con oro e argento, e anche l’insieme di minuterie in seta, come nastri, calze, trine, erano denominate «galanterie». Tra il 1726 e il 1779 i mercanti di seta di Napoli commerciarono grossi quantitativi di galanterie in Sicilia e provocarono aspre reazioni da parte dei fabbricanti locali, in particolare di quelli di Messina e Palermo, come riferisce Rosalba Ragosta. Merletti francesi, Gobelins (dal nome dello storico laboratorio francese), specchi e galanterie, cioè tutte le «merci francesi» di lusso, trovarono nel Settecento vasta diffusione in Europa, facendo crescere secondo Kulischer di dieci volte il commercio francese.
Fu anche stabilito che, «nel caso di discioglimento di detto matrimonio per morte di alcuno di essi sposi, ed altro caso», metà della somma di 40 ducati sarebbe tornata a Rosa Maria: «soltanto 20 de contanti liberi ed espliciti»; e che l’altra metà sarebbe stata restituita a seconda del consumo delle merci: «rilasciandoli l’altri 20 a rispetto del consumo se ne fa di dette vesti e galanterie, riguardo de beni corredali restituirli usu consumpti ed invecchiati, e siccome in quel tempo si ritroveranno».
Trovo divertente che come causa di scioglimento del matrimonio nell’atto stipulato fu ipotizzata la morte di uno qualsiasi dei due sposi, ma poi di fatto come possibile beneficiario si parla solo di Rosa Maria. Questo, secondo me, la dice lunga sulla capacità di trattativa nel frattempo raggiunta da Crescenzo, che in quel momento aveva 49 anni. La «restituzione di esse» (vesti e galanterie) «detto volgarmente “alla vecchia maniera”, e colla potestà concessa a detta magnifica Rosa Maria di poter disporre e testare di dette doti, secondo la costumanza di Napoli».
Altro commento: nei capitoli matrimoniali Rosa Maria è chiamata «magnifica». La spiegazione può essere duplice: o dipendeva dal fatto che la ragazza era figlia di un magnifico, o l’uso di questo appellativo era diventato ormai molto, troppo diffuso. Anche se in origine “magnifico” non era un titolo ereditabile, ma qualificava le eccezionali doti di una persona illustre, è verosimile che valessero un po’ entrambe le spiegazioni.
«Di più il detto magnifico Gaetano ne ha promesso a beneficio di detta magnifica Rosa Maria lo intestato pro tertia parte di dette intiere doti. Però nella proprietà di detto antefato debbano succedare i figli nascituri da detto matrimonio come figli e non come eredi di detto magnifico Gaetano, così per special patto e convenzione avuta fra esse parti, siccome tutto ciò ed altro più diffusamente ravvisasi dall’istromento de capitoli matrimoniali stipulato per mano di Notar…» [il documento si interrompe in questo punto]. Trovo ancora una volta divertente la precisazione imposta dal padre della sposa di doversi considerare «i figli nascituri da detto matrimonio come figli e non come eredi di detto magnifico Gaetano».