cap 6

Ebbero i loro amori. Ebbene, Francesco Antonio si sposò cinque anni dopo, il 5 gennaio 1734, e lo fece tornando per l’occasione a Praiano, con una cerimonia nuziale nella parrocchia di S. Luca molto emozionante, tra fiori, candele e presepi, stretto dalle centinaia di braccia di chi era rimasto a casa e guardava con le lacrime agli occhi i ragazzi che invece avevano trovato il coraggio di partire. Alla sua domanda «ma perché piangete?», la gente rispondeva che era affetto per lo sposo, nel ricordo dei genitori e della sorella. Sì, certo, c’era anche questo, ma per lo più era autocommiserazione, rammarico per essere rimasti isolati sulla costa a condurre una vita sociale meno brillante; in ogni caso non era invidia. Era un sentimento genuino e complesso, diffuso ancora oggi, dopo tre secoli, tra la gente di Praiano.
A ferragosto del 2010 andai a cercare il processetto del matrimonio di Francesco Antonio presso l’Archivio della Diocesi di Amalfi, confidando che anche lì le carte fossero conservate con l’ordine e l’efficienza della Diocesi di Napoli. Invece, per mancanza di fondi o per altro, non saprei e non vorrei esprimermi, in quell’archivio regnava un caos quasi totale. Ma fui fortunato a trovare personalmente tra tante carte, quasi sciolte e spesso a brandelli, alcune paginette relative al matrimonio di Francesco Antonio [6.1][6.2].
In quel momento Crescenzo aveva 23 anni, in chiesa sedeva in prima fila, perché era il più stretto parente dello sposo. Oltre ai fratelli Luca e Pietro, di altri componenti la famiglia c’erano: Gio:Battista, chiamato GioBatta, cugino quarantenne di suo padre, amante della bella vita, in quel momento ancora scapolo, ignaro che di lì a tre anni si sarebbe sposato, sarebbe rimasto vedovo e si sarebbe poi sposato una seconda volta; il cugino Blasio, figlio di zia Vittoria, sorella di suo padre; i cugini Caterina, Nicola, Giovanni, Gaetano e Geronimo, figli di zio Tommaso, fratello maggiore di suo padre; altri cugini di secondo e terzo grado.
Gli sposi prendevano posto dinanzi all’altare principale e le panche destinate ai fedeli, a differenza di oggi, arrivavano a poca distanza dalla balaustra che separava l’altare dalla navata centrale della chiesa. Crescenzo stava nella prima panca di destra. Durante la cerimonia, in un momento in cui si doveva stare in piedi, fece un paio di passi laterali per riuscire a rimirare la cappella del Rosario, a destra dell’altare maggiore, in fondo alla navata laterale destra, e per guardare in particolare il dipinto della Madonna del Rosario con S. Domenico e Santa Caterina [6.3]. Non capiva lui stesso perché si sentisse tanto magnetizzato, dato che quel quadro l’aveva già visto chissà quante altre volte da ragazzo. Poi mise a fuoco un lontanissimo ricordo. Quando aveva sei anni, quindi diciassette anni prima, suo padre Giuseppe gli aveva raccontato con parole magiche che quel dipinto l’aveva fatto nel 1582 un certo Padovano de Montorio, parente della nonna paterna di suo nonno paterno, nientedimeno! Questo ricordo gli riempì il cuore di tenerezza, gli sembrò di ritrovarsi accanto il suo papà, gli sembrò che quel dipinto compensasse in quel momento la penuria in chiesa di suoi familiari stretti. Fu sul punto di bisbigliarlo a Francesco Antonio che si stava sposando, ma quello pensava a ben altro; si girò e incrociò sulla fila dietro di lui lo sguardo di GioBatta, il cugino del padre, ma quell’altro era troppo cinico e mondano per farsi coinvolgere da questi sentimentalismi. Così Crescenzo vi rinunciò, rifece un paio di passi a sinistra, si sedette e si rituffò in quei ricordi piacevoli e malinconici.
Non poté poi fare a meno di notare alcuni segni residui dei danni provocati dal forte terremoto verificatosi in Campania un anno e mezzo prima, nel 1732. Come hanno testimoniato Fravolini e Guerriero, i lavori edili di riparazione di quei danni nella parrocchia di S. Luca erano cominciati dopo pochi mesi, ma il 5 gennaio del 1734 restava qualche rifinitura da completare.
Le ragazze da marito lo rividero ancora tenero nelle sembianze, ma ormai sicuro di sé, in un certo senso maturato, con un abbigliamento che adattava elementi tipici di Praiano al gusto e alla moda della città di Napoli, con un pizzico di vanità che la gente sulla costa non conosceva.
Quel giorno Crescenzo non era depositario di aggeggi di abbigliamento femminile. A quei tempi, ogni cavalier servente era tenuto a custodire nelle proprie tasche, sempre pronto a tirarli fuori al minimo cenno della sua dama, ammennicoli vari, come specchietti, bossoli con cipria, forbici, nastri, boccetta con odore balsamico. Quando la dama voleva ritoccarsi un po’ il trucco, chiamava il cavalier servente e si faceva dare che so io il bossolo con la cipria. Crescenzo non aveva nulla di tutto questo, e non ce l’aveva per due ragioni diverse. In primo luogo, era ancora un cavaliere libero, non impegnato con alcuna dama, forse sarebbe diventato un perfetto cicisbeo, ma per ora no, era libero. In secondo luogo a Praiano, per quanto avvenenti fossero, le dame non avevano con sé specchietti, né bossoli di cipria, né nastri o boccette.
Nei primi cinque anni di vita a Napoli, nelle cerimonie eleganti Crescenzo aveva visto tanti ricchi signori sfoggiare parrucche esagerate, sulla scia nostalgica della moda del Seicento. Lui invece magari era anche vanitoso, ma rifuggiva da tutti i segni esteriori dell’agiatezza, e questo perché era schivo per carattere e perché sentiva proprio di non averla ancora raggiunta questa agiatezza. Semmai era concentrato a vedere cosa fare per salire il più in fretta possibile i gradini del successo professionale ed economico e, solo come naturale conseguenza, dell’accumulazione patrimoniale. Così al matrimonio di Francesco Antonio si limitò a raccogliere all’indietro la treccia dei capelli in un sacchetto di seta nera, uno di quei sacchetti fabbricati a Praiano, secondo la moda dell’epoca. Questo dunque era un primo elemento tipico del posto che Crescenzo volentieri usò per la cerimonia.
Come vestito indossò una modernissima giamberga. Questa era la versione semplificata della marsina, ossia del frac, ed era appunto diffusa nelle terre del regno. Spiegò Levi Pisetzky che a Venezia si chiamava “velada”. La giamberga di Crescenzo era ampia e lunga fino al polpaccio, a falde quadre davanti e dietro e apertura diritta con una fila di bottoni di metallo prezioso fino all’altezza del ginocchio. L’occhiellatura non era allacciata, ci stava solo per bellezza. Le maniche erano non troppo lunghe, un poco svasate verso il polso, con paramani alti e assai larghi, assicurati all’insú con una propria abbottonatura. Le tasche davanti e dietro erano orizzontali, con alette sagomate e bottoni. Sotto la giamberga Crescenzo portava una sottomarsina. Dicevano che a Venezia la chiamavano “camisiola”. Era lunga quasi fino alle ginocchia, ma abbottonata solo fino in vita, poi scendeva aperta e lasciava vedere i calzoni, anzi i bragoni, così si chiamavano. A volte erano fatti con la stoffa della giamberga, altre volte erano fatti a maglia, attillati, alla spagnola. Crescenzo indossava quelli a maglia, perché gli sembrò che avessero un tono meno solenne, più giovanile, così come d’altronde il sacchetto di seta nera al posto della parrucca. Anche se timido, era un po’ esibizionista.
I bragoni finivano al ginocchio. Crescenzo indossava calze tese, bianche e perciò eleganti e adatte alla cerimonia, fabbricate a Furore, località confinante con Praiano. Le scarpe erano basse, di pelle nera. Intorno al collo si girò una corvatta di lino finissimo, progenitrice della moderna cravatta.
Lo zio GioBatta rimase sorpreso e compiaciuto nel vedere questo giovanotto che lo insidiava sul piano dell’eleganza. In chiesa ci fu tra le ragazze una gara tacita a lanciargli sguardi languidi, i loro occhi solo apparentemente erano rivolti al pavimento. Oltretutto il pavimento non meritava proprio alcuna attenzione, anche perché l’odierno cotto maiolicato di scuola napoletana, con disegni di finissima fattura, oggi purtroppo deteriorato, fu messo in opera solo nel 1790. Quindi nel 1734 per terra non c’era proprio nulla da ammirare. Le ragazze gli sussurravano con voce impacciata frasi ingenue e ambivalenti, dicevano come stava bello don Crescẽzo, e gli chiedevano se in chiesa ci andasse pure a Napoli, volendo con ciò inquisire con una malcelata gelosia su chissà quale vita dissoluta e peccaminosa Crescenzo potesse mai condurre a Napoli che lo tenesse lontano dal confessionale o, al contrario, quali altre ragazze lui incontrasse in chiesa a Napoli, dando per scontato che in città le ragazze uno le potesse incontrare solo in chiesa.
Ma il giovanotto aveva ormai deciso che al momento giusto una moglie l’avrebbe trovata altrove.
Cercai gli “acta matrimonialia” di Crescenzo sia nella Diocesi di Napoli che in quella di Amalfi, ma non li trovai. All’epoca il matrimonio si celebrava nella parrocchia della sposa e Carmina Fenizia non era della provincia di Napoli e forse nemmeno della costa amalfitana.
D’altra parte, la perdita della madre Rosa a undici anni e della sorella maggiore Vincenza a diciassette gli avevano procurato un dolore enorme, lo avevano reso un po’ insicuro e introverso, ma al tempo stesso lo avevano indurito. Insicuro e duro, può sembrare contraddittorio e non lo è. Perché duro lo era solo in superficie, non dentro, così come lo sono il topazio e altre pietre minerali anche pregiate, fragili ma dure nel senso che la loro superficie resiste bene al taglio. Soprattutto quelle perdite gli avevano asportato di netto il cordone ombelicale affettivo rispetto a una qualsiasi figura femminile materna della propria famiglia. Crescenzo non aveva neanche conosciuto la nonna paterna Vincenza, la madre di suo padre Giuseppe, morta nel 1704, sei anni prima che nascesse lui e un anno dopo la nascita di sua sorella che ne aveva preso il nome.
Per queste ragioni e per voglia di evasione, Crescenzo si sentiva libero di cercarsi la donna della sua vita fuori Praiano. Anche per questo era andato volentieri a Napoli.

About Riccardo Gallo
Riccardo Gallo (Roma, 23 settembre 1943) è un ingegnere, economista e docente italiano. Professore alla Sapienza, ha svolto compiti di risanamento del sistema produttivo italiano in ambiti governativi, finanziari, aziendali, riversando e incrociando le competenze acquisite. È stato definito il bastian contrario sia del management pubblico che del privatismo arrogante, estremista di centro. Ha collaborato con Il Sole 24 Ore. Oggi è opinionista de L’Espresso.
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